12 settembre 2011

Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma

L'intento è di sfidare la paura dell'altro come tema per conquistare il consenso e l'audience televisiva. Ma il divario tra l'agenda mediatica e le preoccupazioni dei cittadini resta elevatissimo

di Ilvo Diamanti *

Al Festival di Venezia, quest'anno, il Cinema italiano, dopo tanti anni, è stato protagonista. Il Premio della Giuria, assegnato a "Terraferma" di Emanuele Crialese. Migliore Opera prima: "Là-bas", di Guido Lombardi. I due film hanno un soggetto comune: gli immigrati. Il film di Crialese: l'esodo dei disperati in fuga dal Nord Africa, visto con gli occhi dei pescatori siciliani.

Il film di Lombardi: le drammatiche storie degli immigrati in rivolta a Castelvolturno, nel 2008. Ma le opere presentate a Venezia da registi italiani, sull'argomento, sono molto numerose. In tutte le sezioni. Oltre una decina. Ne citiamo solo alcune. "Cose dell'altro mondo" di Francesco Patierno, che ipotizza la (disastrosa) scomparsa degli immigrati in una zona del Nordest. E ancora: "Storie di schiavitù" di Barbara Cupisti, "Io sono Li", di Andrea Segre (fra gli interpreti: Marco Paolini), "Villaggio di Cartone", scritto e diretto da un maestro: Ermanno Olmi. Fino a "L'ultimo terrestre", di Gipi, che narra dell'arrivo degli alieni fra noi. Dove gli alieni sono "gli altri, che evidenziano la nostra vulnerabilità. Il nostro sentimento di perifericità".

Gli inviati di Le Monde (Jacques Mandelbaun e Philippe Ridet), al proposito, hanno osservato che l'immigrazione, per il Cinema italiano, è divenuto "un genere in sé". E hanno realizzato, al proposito, un commento molto ampio, dal titolo, assolutamente esplicito: "L'immigrato, vedette americana della Mostra di Venezia". D'altronde, è difficile, impossibile, trovare, in Europa - e altrove - un'attenzione tanto acuta - quasi ossessiva - come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano. Per quanto animato da sentimenti "civili" e solidali, non riesce a dissimulare il disagio diffuso, in un Paese di emigranti dove l'immigrazione è giunta all'improvviso. Ed è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%. Oggi si aggira, infatti, intorno al 7% (in valori assoluti: circa 5 milioni, secondo Caritas-Migrantes), ma tocca anche il 20% nelle zone più industrializzate del Centro e del Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Nordest). Eppure le "misure" reali del fenomeno non bastano a spiegare tanta sensibilità da parte dei registi e degli autori del cinema. Intellettuali e specialisti - talora artisti - della comunicazione. La cui attenzione è dettata, sicuramente, dal "materiale" offerto dal problema. Le biografie e le "storie" degli immigrati, l'incontro con le comunità locali, con gli "italiani".

Ma conta, altrettanto e forse di più, l'intento di "sfidare" il Pensiero Unico veicolato dai media e propagandato dal populismo di destra - influente nella maggioranza di governo. La Paura dell'Altro come tema per conquistare il consenso - e l'audience. Basta scorrere i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis). Nei telegiornali pubblici di prima serata di alcuni importanti Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), nel corso dei primi quattro mesi del 2011, le notizie relative all'immigrazione hanno occupato il 3% del totale. Più in particolare: su France 2 hanno rappresentato l'1,6%, su ARD (rete pubblica tedesca) lo 0,6%, sulle altre perfino di meno. Nel Tg1, invece, il 13,9%. (La stessa percentuale si ottiene, peraltro, considerando anche gli altri principali tg italiani, pubblici e privati). Naturalmente, l'Italia è il Paese dove le "rivoluzioni" nordafricane e, soprattutto, l'intervento in Libia hanno avuto maggiore impatto. Con la differenza che altrove, in Europa, questi avvenimenti sono stati trattati come fatti ed episodi di guerra. Mentre in Italia sono stati affrontati, in modo specifico, dal punto di vista dell'immigrazione. O meglio (forse: peggio), dell'invasione. Il primo e principale argomento utilizzato dalla Lega a sostegno della propria opposizione all'intervento in Libia.

Tuttavia, nonostante gli sbarchi e le guerre sull'altra sponda mediterranea, il divario fra l'agenda mediatica e le preoccupazione dei cittadini, infatti, resta elevatissimo. Basta consultare, di nuovo, i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, concentrandoci, in questo caso, sulla percezione sociale. L'immigrazione, infatti, è indicata come la preoccupazione principale dal 6% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nel giugno 2011). Le cui angosce sono, invece, attratte, in larghissima misura, dai temi legati all'economia, l'occupazione, il costo della vita (55%). Lo sguardo mediale sugli immigrati appare, dunque, asimmetrico rispetto a quello della popolazione. Lo stesso avviene riguardo alla criminalità, che resta al centro dell'informazione televisiva (55% delle informazioni di prima serata), mentre preoccupa una quota molto più ridotta della popolazione (10%). Si tratta di una conferma della "costruzione" politica e mediale dell'insicurezza, che induce a enfatizzare la "paura degli altri" e a ridimensionare l'incertezza per motivi economici e (dis)occupazionali. (D'altronde, il pessimismo economico è comunista e anti-italiano, ha ripetuto il Presidente del Consiglio, anche di recente).

Ma in questa fase mi pare che "gli altri" non si risolvano negli immigrati che giungono in Italia, spinti dalla necessità o dall'emergenza. In condizioni difficili, talora drammatiche. Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell'accerchiamento più estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall'esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma anche dall'Europa e, soprattutto, dalla Germania. Che non credono nella nostra economia, ma soprattutto, nel nostro sistema politico. E minacciano di non coprire il nostro debito pubblico, di non acquistare i nostri titoli di Stato. Ci sentiamo minacciati dalle Borse e dai Mercati, dallo Spread e da S&P. Noi, che abbiamo coltivato, a lungo, un'identità nazionale fondata sull'arte di arrangiarsi, sulla capacità di adattarsi e di reagire. Noi che ci siamo considerati una società "vitale" - nonostante il governo, nonostante lo Stato. Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest'anno, a Venezia.
In realtà, parlano di noi. Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma.

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* da La Repubblica 12 settembre 2011

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