21 agosto 2012

Alexander Langer: il piacere della conversione ecologica


di Grazia Barbiero *
Nel marzo del 1994, Alexander Langer scrive Il tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica. Dieci punti che indicano modalità teoriche e pratiche capaci di consentire alla compresenza sullo stesso territorio di etnie, lingue, culture, religioni e tradizioni diverse di farsi riconoscere e rendersi visibile nella propria dimensione plurietnica a svantaggio degli esclusivismi etnici.

Per Langer, esplosioni di nazionalismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso sono tra i fattori dirompenti nella convivenza civile più minacciosi delle tensioni sociali, ecologiche o economiche perché implicano tutte le dimensioni della vita collettiva. Cultura, economia, vita quotidiana, abitudini, oltre che la politica e la religione. Scrive su questi temi mentre scorre il sangue nella ex Yugoslavia e nel ’94 ogni soluzione al conflitto appare lontana. La convivenza a cui pensa non è prescrittiva. Al contrario è in grado di dissolvere la conflittualità etnica solo nel caso sia soggettivamente voluta e agita da mediatori, costruttori di ponti, traditori della compattezza etnica ma non da transfughi. Esclude quindi ogni operazione tesa alla forzatura delle inclusioni, dei processi di assimilazione, dei divieti di lingua e religione. Allo stesso modo, stigmatizza le esclusioni forzate marchiate dall’emarginazione, dalla ghettizzazione, dalla espulsione fino ad arrivare allo sterminio. Delinea con coerenza il quadro di una convivenza soggettivamente desiderata, conseguenza positiva del massimo livello possibile di conoscenza reciproca. Nello stesso anno – 1994 – pochi mesi più tardi, a settembre, prepara per i Colloqui di Dobbiaco un testo in cui mette a fuoco quella che secondo lui è la questione politica centrale nell’impostazione di una strategia ecologica alternativa e fortemente innovativa. Questa questione politica è il nodo attorno a cui si sviluppa anche il pensiero di Langer per quanto riguarda la neutralizzazione della conflittualità etnica. Delinea, così, un precetto secondo lui indiscutibile e ineliminabile: “La conversione ecologica – scrive nel titolo – potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”. Lo “Stato etico ecologico”, l’eco-dirigismo, l’eco-autoritarismo, possibilmente illuminato e possibilmente mondiale è “rimedio estremo” che non funziona.

Non esiste il "colpo grosso", l’atto liberatorio che possa aprire la via verso la conversione ecologica: i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione enorme e paziente. Sarebbe auspicabile, secondo Langer, che il carburante del motore della trasformazione si alimentasse nella triade “lentius, profundius, soavius” piuttosto che ai pozzi comportamentali definiti dall’altra triade “altius, citius, fortius”. La paura della catastrofe, ne è convinto, non ci condurrà mai sulla giusta strada, non permetterà mai alla politica ecologista di sfuggire alle insuperabili contraddizioni imposte da quest’ultimo tridente dove governa l’esercizio di un potere che si esprime per costrizioni, per vittorie strappate, per arroganze indipendenti dalla persuasione, dalla diffusione del sapere, dal coinvolgimento culturale di grandi masse di cittadini. Ecco che Langer fonda, come chiave della trasformazione, il principio del piacere diffuso, dell’ampia condivisione di riflessioni, di metodi, di obiettivi; coniuga, cioè, politica e piacere, movimento e piacere, cambiamento e piacere, seguendo una logica e un vocabolario intellettuale, forgiati nelle rivolte e nella critica sessantottesche. Apre allora alla didattica delle questioni affrontate e imposta una pedagogia tesa alla persuasione piuttosto che alla semplice e riduttiva vittoria, come sola pratica politica in grado di intrecciare coscienze e interessi in modo solidale, consapevole, duraturo. Cita come qualità imprescindibile di ogni operatività politica la pazienza, mentre il mondo intorno a lui predica e attua il contrario. Per questo, parla di un lavoro di “persuasione enorme”. In questo aggettivo in cui la quantità tende all’infinito, Langer si muove in rotta di collisione con la crescente sbrigatività, con il carattere commercialmente succinto, riduzionista del linguaggio progressivamente adottato dalla politica tradizionale per evitare la sbornia della velocità dei tempi nuovi, per non lasciarsi superare da questi, per non perdere la partita. Langer sposta la politica dal luogo in cui si è posizionata per mascherare la crisi allora evidente e oggi drammaticamente esplosa. Attento alla sufficienza con cui la tribuna di quella politica guarda alla sua diagnosi e ai suoi rimedi, riposiziona il pensiero e l’iniziativa politica lungo un asse che la riconnette alla capacità di esprimere visioni possibili, ad una critica radicale dell’esistente. Al di fuori della persuasione, al di fuori di quel lavoro enorme non è possibile il cambiamento, al di fuori di quella didattica in grado di promuovere la conoscenza e lo sviluppo di nuova coscienza non c’è vittoria capace di resistere, di mutare e spostare davvero le cose.

Senza il piacere e prima ancora senza il desiderio di quel piacere, ogni cambiamento è impossibile. Langer, infine, lungo questa strada sembra sganciare la politica dall’orbita della cultura industriale per rimetterla alle cure di una cultura – forse contadina - che non ha mai smesso di tutelare quelle tre chiavi: lentius, profundius, soavius. Non è una reazione alla stringatezza e alla frequenza delle decisioni e delle azioni che sembrano governare il mondo globalizzato: Langer anticipa, con il suo precetto, l’orizzonte etico entro cui si giocano il presente e la sopravvivenza. Rivoluziona il linguaggio della politica, la rimette in grado di pensare, di pensare il futuro, di promuovere analisi e critica, di riacquistare forza, prima che potere, e credibilità. La misura – non reattiva, non conservatrice - che Langer applica alla sua rivoluzione intellettuale è ben descritta da queste affermazioni:
Una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica; e ancora: ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate – come è ovvio – in larga misura al di fuori della politica, fondate su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nella identità dei popoli). Né singoli provvedimenti, né un ’Ministero dell’Ambiente’, né una valutazione di impatto ambientale più accurata, né norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.

La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile
di Alexander Langer [1]

1.   Abbiamo creato falsa ricchezza per combattere false povertà – Re Mida patrono del nostro tempo Da qualche secolo ed in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per sfuggire a false povertà. Di tale falsa ricchezza si può anche perire, come di sovrappeso, sovramedicazione, surriscaldamento ecc. Falso benessere come liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte industrializzata e "sviluppata" del pianeta. Ci si è liberati di tanto lavoro manuale, avversità naturali, malattie, fatiche, debolezze – forse tra poco anche della morte naturale – in cambio abbiamo radiazioni nucleari, montagne di rifiuti, consunzione della fantasia e dei desideri. Tutto è diventato fattibile ed acquistabile, ma è venuto a mancare ogni equilibrio. Non solo l’apprendista stregone è il personaggio-simbolo del nostro tempo. L’antico re Mida – che ottenne il compimento del suo desiderio che ogni cosa che toccava si trasformasse in oro – ci appare come il vero patrono dei culti del progresso e dello sviluppo, l’attualissimo predecessore dei benefici della nostra civiltà.

2. Non si può più far finta si non sapere, l’allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo ed ha generato solo provvedimenti frammentari e settoriali Da qualche decennio e con sempre maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali. Un quarto di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e prognosticare, a dare l’allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. La tutela tecnica dell’ambiente è notevolmente migliorata nel mondo industrializzato, si sono registrati singoli successi, alcune acque si stanno rivitalizzando, certe specie in pericolo di estinzione si sono salvate, cominciano a circolare detersivi, carburanti ed imballaggi "ecologici"...

3. Perchè l’allarme non ha prodotto la svolta? È già finito l’intervallo di lucidità (Stoccolma 1972 - Rio 1992)?
Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni, boicottaggi, raccolte di firme...: tutto ciò ha aiutato a riconoscere l’emergenza: le malattie sono state diagnosticate, le possibilità di guarigione studiate e discusse – terapie complessive non sono state ancora attuate. E soprattutto: appare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione, se ci fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinati. Visto però che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono ad una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura. C’è da meravigliarsi se oggi persino la diagnosi risulta controversa? Silvio Berlusconi, a capo del governo della cosiddetta Seconda Repubblica, sin dal suo discorso inaugurale alla Camera ha ritenuto di dover ironizzare sull’allarme per l’effetto-serra: "forse il nostro pianeta comincerà ad intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare". C’è da pensare che dunque ci resta ancora tanto tempo per cementificare, dissipare, disboscare! Vuol dire che l’intervallo di lucidità che si potrebbe situare tra le due conferenze mondiali sull’ambiente (Stoccolma 1972 - Rio de Janeiro 1992) è già terminato? Si è fatto il pieno di lamenti ed allarmi e si pensa ora che la riunificazione del mondo tra Est e Ovest vada celebrata con nuovi fasti di crescita?

4. "Sviluppo sostenibile" – pietra filosofale o nuova formula mistificatrice?
Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula magica dello "sviluppo sostenibile" sembra essere la quadratura del cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche autolimitazione della parte altamente industrializzata ed armata dell’umanità, come pure l’idea che alla lunga sia meglio puntare sull’equilibrio piuttosto che sulla competizione selvaggia; ma il termine "sviluppo" (o crescita, come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per suscitare l’impeto globalmente necessario per la conversione ecologica.

5. A mali estremi, estremi rimedi? ("Muoia Sansone con tutti i filistei"? Eco-dittatura?)
Di fronte ai vicoli ciechi nei quali ci troviamo, può succedere che qualcuno tenti estreme vie d’uscita. Anche tra ecologisti, pur così propensi ad una cultura della moderazione e dell’equilibrio, ci può esserci chi – seppure oggi in posizione isolata – chi pensa a rimedi estremi. Scegliamone i due più rilevanti: la prima potrebbe essere caratterizzata con "muoia Sansone e tutti i filistei": la convinzione che la catastrofe ambientale sia inevitabile e non più rimediabile, e che pertanto tocchi mettere in conto disastri epocali come ne sono avvenuti altri nel corso dell’evoluzione del pianeta. In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali disastri. L’altro "rimedio estremo" che si potrebbe agitare, sarebbe lo "Stato etico ecologico", l’eco-dirigismo o eco-autoritarismo possibilmente illuminato e possibilmente mondiale. Visto che l’umanità ha abusato della sua libertà, mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza e quella dell’ambiente, qualcuno potrebbe auspicare una sorta di tutela esperta ed eticamente salda ed invocare la dittatura ecologica contro l’anarchia dei comportamenti anti-ambientali. Si deve dire chiaramente che simili ipotetici "estremi rimedi" si situano al di fuori della politica – almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz’altro deplorevoli), il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcuno sforzo di tipo politico: per politica si intende l’esatto contrario della semplice accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza. Quindi si dovrà cercare altrove la chiave per una politica ecologica, ed inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso, l’atto liberatorio tutto d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica, i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente.

6. La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? "Lentius, profundius, suavius", al posto di "citius, altius, fortius"
La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli; e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario. Nè singoli provvedimenti, nè un migliore "ministero dell’ambiente" nè una valutazione di impatto ambientale più accurata nè norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile. Sinora si è agiti all’insegna del motto olimpico "citius, altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in "lentius, profundius, suavius" (più lento, più profondo, più dolce"), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso. Ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate – come è ovvio – in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell’identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica.

7. Possibili priorità nella ricerca di un benessere durevole I passi che qui si propongono – intrecciati ed interdipendenti tra loro – fanno parte di una visione favorevole al cambiamento e potrebbero a loro volta incoraggiare nuovi cambiamenti. Purchè ogni passo limitato e parziale si muova in una direzione chiara e comprensibile, ed i vantaggi non siano tutti rimandati ad un futuro impalpabile.
a) bilancio ecologico Gli attuali bilanci pubblici e privati sono tutti basati su dati finanziari. Sintanto che non si avranno in tutti gli ambiti (Comune, Provincia, Regione, Stato, CE, ...) accurati bilanci della reale economia ambientale che facciano capire i reali "profitti" e le reali perdite, non sarà possibile sostituire gli attuali concetti di desiderabilità sociale, e tanto meno un cambiamento dell’ordine economico.
b) ridurre invece che aumentare i bilanci Ogni discorso sulla necessità della svolta resta assurdo sino a quando la crescita economica resterà l’obiettivo economico di fondo e sino a quando i bilanci pubblici e privati punteranno ad aumentare di anno in anno. La parte industrializzata del pianeta dovrà finalmente decidersi alla crescita-zero e poi a qualche riduzione – naturalmente con la necessaria cautela e moderazione per non causare dei crolli sociali o economici.
c) favorire economie regionali invece che l’integrazione nel mercato mondiale Sino a quando la concorrenza sul mercato mondiale resterà il parametro dell’economia, nessuna correzione di rotta in senso ecologico potrà attuarsi. La rigenerazione delle economie locali, invece, renderà possibile – tra l’altro – una gestione più moderata e controllabile dei bilanci, compreso quello ambientale.
d) sistemi tariffari e fiscali ecologici, verità dei costi Di fronte ad un mercato che addirittura postula e premia comportamenti anti-ecologici, visto che non ne fa pagare i costi, si rende indispensabile un sistema fiscale e tariffario orientato in senso ambientale, che imponga almeno in parte una maggiore trasparenza e verità dei costi: imprenditori e consumatori devono accorgersi dei costi reali del massicio trasporto merci, degli imballaggi, del dispendio energetico, dell’inquinamento, del consumo di materie prime, ecc.
e) allargare e generalizzare la valutazione di impatto ambientale Tutto quanto viene oggi costruito (opere, tecnologie, ecc.), produce impatti e conseguenze di dimensioni sinora sconosciute. La valutazione di impatto ambientale – nel senso più comprensivo di una reale valutazione delle conseguenze ecologiche, ma anche sociali e culturali a breve e lungo termine di ogni progetto – dovrà diventare il nocciolo di una nuova sapienza sociale, e va quindi adeguatamente ancorata negli ordinamenti. Così come altre società, passate o presenti, proteggevano con norme fondamentali e tabú (sulla guerra, l’ospitalità, l’incesto...) le loro scelte di fondo, oggi abbiamo bisogno di norme fondamentali a difesa della valutazione di impatto ambientale – non importa se si tratti di autostrade, missili, biotecnologie, forme di produzione di energia o introduzione di nuove sostanze chimiche di sintesi. Tale valutazione non potrà avvenire senza l’intervento dei più diretti interessati e postulerà una Corte ambientale a suo presidio.
f) redistribuzione del lavoro, garanzie sociali Solo una vasta redistribuzione sociale del lavoro (e quindi dei "posti di lavoro" socialmente riconosciuti) permetterà la necessaria correzione di rotta. L’ammortamento sociale degli effetti prodotti da scelte di conversione ecologica (che si chiuda una fabbrica d’armi o un impianto chimico..) è un investimento importante ed utile quanto e più di tanti altri, e se si indennizzano i proprietari di terreni che devono cedere ad un’autostrada, non si vede perché altrettanto non debba avvenire nei confronti di operai o impiegati che devono cedere alla ristrutturazione ecologica.
g) riduzione dell’economia finanziaria, sviluppo della "fruizione in natura" Sino a quando ogni forma di economia sarà canalizzata essenzialmente attraverso il denaro, sarà assai difficile far valere dei criteri ecologici, e ci saranno pesanti ingiustizie socio-ecologiche: chi può pagare, potrà anche inquinare. Un processo di "rinaturalizzazione" – che allontani dalla mercificazione generalizzata (dove tutto si può vendere e comperare) e valorizzi invece l’apporto personale e non fungibile – potrebbe aiutare a scoprire un diverso e maggior godimento della natura, del lavoro, dello scambio sociale. Le "res communes omnium" (dalla fontana pubblica alla spiaggia, dalla montagna alla città d’arte) non si difendono col ticket in denaro, bensì con l’esigere una prestazione personale, con un legame col volontariato, ecc.
h) sviluppare una pratica di partnership La necessaria autolimitazione ecologica riesce più convincente se si fa esperienza diretta di interdipendenza e partnership: nella nostra attuale condizione, forse potrebbero essere alleanze o patti "triangolari" (Nord/Sud/Est) quelle che meglio riflettono il nesso tra i cambiamenti necessari in parti diverse, ma interconnesse del mondo. L’"alleanza per il clima" ne può fornire una interessante, per quanto ancora parzialissima, esemplificazione.

8. Una Costituente ecologica?
Società anteriori alla nostra avevano il loro modo di sanzionare, solennizzare e tramandare le loro scelte ed i loro vincoli di fondo: basti pensare alla "magna charta libertatum", al leggendario giuramento dei confederati elvetici sul Rütli, alla dichiarazione francese sui diritti dell’uomo, al patto di fondazione delle Nazioni unite... Oggi difettiamo di una analoga norma fondamentale di vincolo ecologico che – viste le caratteristiche del nostro tempo – avrebbe peso e valore solo se frutto di un processo democratico. Certamente esiste in questa o quella carta costituzionale un comma o articolo sull’ambiente, ma siamo ben lontani dal concepire la difesa o il ripristino dell’equilibrio ecologico come una sorta di valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società, e di trarne le conseguenze. Se si vuole riconoscere ed ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l’ambiente, bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto culturale e sociale, ma che dovrebbe sfociare in qualcosa come una "Costituente ecologica". In fondo le Costituzioni moderne hanno il significato di vincolare il singolo ed ogni soggetto pubblico o privato ad alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all’apparente convenienza che l’economia della crescita e dei consumi di massa sembra offrire.

 [1] Testo scritto il primo agosto 1994 Colloqui di Dobbiaco

 * da   www.lavoroculturale.org  - 19 luglio 2012

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