4 giugno 2014

Conservatori al potere






La riforma costi­tu­zio­nale è tor­nata tra le prio­rità dell’attuale mag­gio­ranza. Si riparte da lì dove era­vamo rima­sti prima delle ele­zioni: dal pro­getto del governo, nono­stante esso sia stato cri­ti­cato da quasi tutti i sena­tori della com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali, mal­grado l’approvazione di un oppo­sto ordine del giorno che dovrebbe impe­gnare in senso con­tra­rio la stessa com­mis­sione. È allora oppor­tuno anzi­tutto ricor­dare ciò che sem­bra si voglia invece per­vi­ca­ce­mente dimen­ti­care: le costi­tu­zioni non sono stru­menti di governo.

Il loro scopo è quello di limi­tare i sovrani, assi­cu­rare i diritti, divi­dere il potere. Una costi­tu­zione stru­men­tum regni non è una costi­tu­zione moderna: «Non si ha costi­tu­zione se essa non fissa la sepa­ra­zione dei poteri e non assi­cura la garan­zia dei diritti» è scritto nei testi fon­da­tivi il costi­tu­zio­na­li­smo moderno, è scritto nell’articolo 16 della dichia­ra­zione dei diritti dell’uomo e del cit­ta­dino del 1789. Ed è sem­pli­ce­mente que­sto che soste­niamo quando affer­miamo che la costi­tu­zione non è nella dispo­ni­bi­lità di nes­suna mag­gio­ranza poli­tica. Non è nella dispo­ni­bi­lità nep­pure dei governi amici o rite­nuti tali.

Le costi­tu­zioni pos­sono essere cam­biate, non c’è dub­bio. Ma le moda­lità del loro cam­bia­mento sono quelle fis­sate dalla carta costi­tu­zio­nale stessa. Sta­bi­lite in costi­tu­zione pro­prio per evi­tare che siano i governi, i poteri di volta in volta domi­nati, le mag­gio­ranze momen­ta­nee, i soli rap­porti di forza a defi­nire ciò che tiene unita un’intera società, a deci­dere sulla vita e sui diritti di tutti i con­so­ciati, sul modo di orga­niz­zare i poteri.
Da noi le regole del cam­bia­mento sono fis­sate nell’articolo 138. Il più citato tra quelli della nostra costi­tu­zione, ma mai sino in fondo com­preso. Pen­sare che si sia solo pre­vi­sto un per­corso più acci­den­tato (le mag­gio­ranze più alte, la dop­pia let­tura di camera e senato, magari anche il refe­ren­dum che qual­che mino­ranza osti­nata può richie­dere) vuol dire non com­pren­dere la sostanza dell’art. 138, che non rap­pre­senta sem­pli­ce­mente un osta­colo al cam­bia­mento. Non è una forza che frena (kate­chon). È una dispo­si­zione che, in caso, si oppone all’improvvisazione, che invita a dare un senso non banale, non con­tin­gente alla modi­fica dei prin­cipi che si pon­gono alla base del vivere civile.

Ed è appunto la com­ples­sità del cam­bia­mento che mi sem­bra sfugga. Alla base dei testi di riforma non vedo un’idea di costi­tu­zione ade­guata ai tempi com­plessi che viviamo. Pro­po­ste soste­nute dall’esigenze di dare rispo­ste poli­ti­che imme­diate all’indignazione, ma prive di ogni reale capa­cità di cam­bia­mento pro­fondo. Sono testi che oscil­lano peri­co­lo­sa­mente, pas­sando attra­verso parole d’ordine d’effetto, ma vuote.
Un «senato dei sin­daci», ma che è invece com­po­sto in modo assai biz­zarro: da sin­daci, da gover­na­tori, da rap­pre­sen­tanti delle regioni, da nomi­nati del pre­si­dente delle Repub­blica. Senza nes­suna scelta di un modello coe­rente tra i tanti dispo­ni­bili. Un senato che non può essere in grado di affer­marsi nep­pure come organo rap­pre­sen­ta­tivo delle regioni, pri­vato — come si vuole sia il nuovo senato — di ogni potere effet­tivo nelle stesse mate­rie di com­pe­tenza regio­nale: è solo uno slo­gan il «senato dei sin­daci» ed è solo una sug­ge­stione lon­tana dalla realtà quella che si richiama ai modelli fede­rali come in Ger­ma­nia o negli Stati uniti. (…)
In Ita­lia avremo un gran biso­gno di cam­bia­mento. Un cam­bio di passo rispetto al pas­sato. Ma temo che nes­sun cam­bia­mento avremo sin tanto che con­ti­nue­remmo a gio­care con le parole, senza mai sof­fer­marci a riflet­tere sul senso reale delle cose.

A pro­po­sito di parole usate a spro­po­sito. L’accusa che ci viene spesso rivolta è quella di essere con­ser­va­tori e di osta­co­lare il cam­bia­mento. Parole prive di senso, pro­nun­ciate senza la con­sa­pe­vo­lezza della sto­ria. Parole che potreb­bero essere facil­mente ribal­tate.
Se infatti c’è un signi­fi­cato com­ples­sivo che può trarsi dalle riforme costi­tu­zio­nali, e ancor più da quella elet­to­rale, è che esse si pon­gono in stretta con­ti­nuità con il ven­ten­nio che abbiamo alle spalle e che ora si vuole meglio «con­ser­vare», defi­ni­ti­va­mente isti­tu­zio­na­liz­zare, iscri­vendo i suoi prin­cipi addi­rit­tura nel testo della costituzione.

Non è solo una bat­tuta pro­vo­ca­to­ria, se è vero — come a me sem­bra indi­scu­ti­bile — che la sta­gione che abbiamo attra­ver­sato, che ci ha con­dotto sull’orlo del bara­tro eco­no­mico, finan­zia­rio, cul­tu­rale, poli­tico, è stata carat­te­riz­zata da una pro­gres­siva ver­ti­ca­liz­za­zione del sistema poli­tico, da una con­cen­tra­zione dei poteri nelle mani di pochi, nella pro­gres­siva esau­to­ra­zione del par­la­mento, nella tra­sfor­ma­zione dei par­titi di massa in par­titi per­so­nali, dalla gra­duale chiu­sura auto­re­fe­ren­ziale del ceto poli­tico, nella pro­gres­siva e sem­pre più accen­tuata distanza dei poteri gover­nanti dal corpo elet­to­rale. Un corpo elet­to­rale prima abban­do­nato a se stesso e che poi ha finito per abban­do­nare la poli­tica a se stessa.
Da tempo si tenta inol­tre di subli­mare l’assenza di un tes­suto demo­cra­tico dif­fuso, con la per­so­na­liz­za­zione delle lea­der­ship. Non più par­titi che defi­ni­scono indi­rizzi poli­tici gene­rali, bensì capi cui dele­gare il cam­bia­mento, con i quali ci si può solo iden­ti­fi­care, ma non si pos­sono certo con­te­stare.
Non è dun­que un’improvvisa svolta auto­ri­ta­ria quella che denun­ciamo, bensì una pro­gres­siva caduta verso un par­ti­co­lare modello di demo­cra­zia. Quel tipo di demo­cra­zia che noi poveri costi­tu­zio­na­li­sti chia­miamo «demo­cra­zia d’investitura» ovvero «iden­ti­ta­ria». Un modello in verità molto distante da quello dise­gnato in costi­tu­zione. Nella sua prima parte. In quella parte che nes­suno dice di voler cam­biare, pro­prio per­ché tutti ancora — a parole almeno — dicono che defi­ni­sce i prin­cipi demo­cra­tici ancora validi, entro cui tutti dovremmo con­ti­nuare a riconoscerci.
Ma allora, se vogliamo pren­dere sul serio que­ste dichia­ra­zioni dif­fuse, dovremmo pre­ten­dere un diverso e più radi­cale cam­bia­mento. Dovremmo esi­gere una vera rot­tura di con­ti­nuità con il recente pas­sato per ripen­sare quel modello di demo­cra­zia che sostiene l’impianto della nostra costi­tu­zione e che oggi è in sof­fe­renza. Non la chiu­sura degli spazi di demo­cra­zia e par­te­ci­pa­zione bensì l’affermazione delle regole del plu­ra­li­smo sociale e poli­tico.

Qual­cuno vuole real­mente cam­biare lo stato di cose pre­senti? Si intro­du­cano nuove forme di par­te­ci­pa­zione che non si limi­tino alle spet­ta­co­lari — ma asso­lu­ta­mente prive di effetti — con­sul­ta­zioni on line dei cit­ta­dini: non basta l’ aper­tura di un indi­rizzo mail fan­ta­sio­sa­mente inti­to­lato alla rivo­lu­zione di palazzo Chigi (ad una «rivo­lu­zione dall’alto» dun­que) per assi­cu­rare il coin­vol­gi­mento nelle deci­sioni politiche.
Si pensi con più fon­da­tezza a modi­fi­care i rego­la­menti par­la­men­tari per imporre la discus­sione dei dise­gni di legge popo­lare, ad esem­pio.

Si valo­rizzi la cit­ta­di­nanza attiva, l’Italia che ancora crede che sia utile scen­dere in piazza, mani­fe­stare per le pro­prie idee e difen­dere i ter­ri­tori dalla detur­pa­zione delle grandi opere inu­tili. Le isti­tu­zioni del plu­ra­li­smo sono quelle che si fanno carico del disa­gio e che hanno la forza di cam­biare opi­nione, anche a seguito del dif­fuso dis­senso sociale. Cam­biare idea anche per pre­ve­nire il dila­gare di ogni vio­lenza, che rap­pre­sen­te­rebbe la morte del con­fronto demo­cra­tico e civile.
Non si vuole più la con­cer­ta­zione per­ché osta­cola la deci­sione, all’inconcludenza dei «tavoli» delle trat­ta­tive tra le parti sociali si vuole sosti­tuire la velo­cità dell’intervento riso­lu­tivo. Ma delle regole per garan­tire il con­trollo demo­cra­tico dovremo pur indi­carle. La par­te­ci­pa­zione ral­lenta è vero, ma la velo­cità senza limiti porta di sicuro fuori strada, fuori dalla strada della demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva.
Al governo spetta la tutela di ciò che è comune, ma non può pen­sare di svol­gere que­sto com­pito senza i diretti inte­res­sati. E allora, quando si tratta di garan­tire i beni essen­ziali della vita, i diritti fon­da­men­tali dei cit­ta­dini, dall’acqua alla cul­tura, dall’ambiente all’istruzione, soprat­tutto in una fase di ristret­tezze eco­no­mi­che, per­ché non avere un po’ più di fan­ta­sia e per­met­tere, ad esem­pio, la gestione dei beni comuni agli stessi cit­ta­dini. Appli­cando prin­cipi par­te­ci­pa­tivi che in costi­tu­zione sono stati intro­dotti, ma che non hanno tro­vato ancora una appli­ca­zione generalizzata.

Inver­tire la rotta vuol anche dire non con­ti­nuare a sbar­rare la strada ai nuovi com­pe­ti­tori poli­tici: clau­sole di sbar­ra­mento, premi, tor­sioni mag­gio­ri­ta­rie sono tutti stru­menti fina­liz­zati a favo­rire lo scopo legit­timo della gover­na­bi­lità, ma è giunto il tempo di dire che oltre alla gover­na­bi­lità anche i plu­ra­li­smo delle forze poli­ti­che è un valore costi­tu­zio­nale. E un par­la­mento ricco di diverse espe­rienze, che rico­minci a rap­pre­sen­tare non più solo i ver­tici dei par­titi dei lea­der, ma anche una società fram­men­tata e divisa, par­la­men­tari scelti dagli elet­tori e non inse­riti nelle liste gra­zie ad una sele­zione ope­rata dall’alto, rap­pre­senta il pre­sup­po­sto indi­spen­sa­bile per fare uscire il nostro sistema par­la­men­tare dal coma pro­fondo cui è entrato.

Il testo è un estratto dell’intervento letto a Modena nel corso della mani­fe­sta­zione «Per un’Italia libera e onesta»  promossa da Libertà e Giustizia il 2 giugno conGUSTAVO ZAGREBELSKY, SANDRA BONSANTI, STEFANO RODOTÀ, LORENZA CARLASSARE, MARCO TRAVAGLIO, GIANCARLO CASELLI, CARLO SMURAGLIA, ALBERTO VANNUCCI, ELISABETTA RUBINI, PAUL GINSBORG, ROBERTA DE MONTICELLI, GAETANO AZZARITI


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