13 luglio 2014

Api in fuga dalle campagne


 
Api in fuga dalle campagne. Si moltiplicano i casi di avvistamenti di sciami e aumenta la presenza di questi impollinatori tra le vie e i palazzi cittadini. Perché? “Perché ormai stanno meglio in città che in campagna“, spiega all’Adnkronos Francesco Panella, presidente dell’Unaapi, l’Unione nazionale associazioni apicoltori italiani. Colpa dell’agricoltura intensiva, per la quale “servirebbe l’etichetta ‘biocida’, proprio come sui pacchetti di sigarette”. Una pratica che, attraverso l’utilizzo di prodotti chimici, è tra le cause principali della moria delle api, proprio in quello che era il loro habitat naturale.
E anche se l’apicoltura urbana sta diventando un moda, questa migrazione degli insetti dalla campagna alla città rappresenta un dato preoccupante “perché le api sono la punta dell’iceberg di uno dei fattori indispensabili per l’uomo, l’impollinazione, e se le api non sopravvivono più nelle campagne questo significa che non sopravvivono più neanche coccinelle, libellule, farfalle“, aggiunge Panella.

Il dato è diverso a seconda de Paesi. A soffrire di più sono le api che vivono in quelli ad agricoltura intensiva più spinta. “Il peggiore? Gli Stati Uniti che ogni anno, da dieci anni, perdono il 30 per cento delle api; quest’anno è stato il 23 per cento, l’anno scorso il 36 per cento – aggiunge il presidente Unaapi – E infatti Obama la settimana scorsa ha annunciato una task force per salvare le api che temo farà la fine della riforma sanitaria, visto che a decidere le politiche agricole sono i produttori di chimica”.

Le api statunitensi insomma non se la passano bene e le poche che rimangono “vengono in gran parte convogliate in California per impollinare le colture di mandorlo, con il risultato che gli apicoltori hanno denunciato la contaminazione chimica degli alveari portati a questo scopo, sebbene gli agricoltori dichiarino di aver utilizzato sui mandorli prodotti a norma di legge”. Tra i Paesi europei, invece, “l’Italia è quello in cui le api stanno meglio – aggiunge Panella – grazie alla sospensione di alcuni insetticidi sistemici nella concia delle sementi del mais, e questo si vede”.
Per salvare le api, dunque, è necessario “cambiare modo di fare agricoltura – aggiunge Panella – trattiamo il processo produttivo agricolo come se si trattasse di fare automobili o frigoriferi, senza tenere presente che invece abbiamo a che fare con la natura e la sua complessità”. Cambiare modo di fare agricoltura è possibile; più complesso invece agire sui cambiamenti climatici, responsabili di questo “annus horribilis” del miele italiano. “Questa è una pessima stagione produttiva per l’apicoltura italiana – spiega Panella – al momento tutte le fioriture primaverili principali, dal millefiori, all’arancio in meridione e l’acacia nel centro nord, sono ai minimi storici a causa del clima”.
2014 a parte, l’Italia conta  cinquanta mila apicoltori e una produzione media di 200mila quintali di miele l’anno. Un settore in cui cresce l’occupazione, soprattutto giovanile, perché la domanda di prodotti apistici cresce più dell’offerta e salgono di conseguenza le quotazioni del miele “nonostante la Cina stia inondando il mercato di ‘miele’ adulterato e scadente”, e anche perché per avviare un’attività l’investimento è risotto, circa 50-70mila euro.
 * da comune-info.net   fonte Adn Kronos     6 luglio 2014  

 da leggere:

Le api possono salvare il mondo      Negli ultimi anni, studiosi e apicoltori di tutto il mondo hanno segnalato le perdite annuali delle colonie di api comprese tra il 20/50 per cento. Senza api e senza la loro impollinazione la vita umana sulla terra è praticamente impossibile
Le api non vogliono smettere di volare    Marzia Coronati | Un primo successo all’Ue per salvare le api: ma non basta
Api, spaghetti e antropologia   Michela Iorio |Intervista a Lucia Galasso, direttrice del Museo della Civiltà contadina di Pastena
Recuperare il concetto di limite    Serge Latouche |  Austerità o rilancio dei consumi? In realtà, dice Serge Latouche, possiamo rompere questa gabbia con la decrescita, costruendo alternative con cui “uscire dalla società dei consumi, dal capitalismo e da un paradigma forse ancora più vecchio del capitalismo, quello dell’illimitatezza”

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