28 novembre 2014

Diario dal Messico ( novembre 2014 )



Questo “diario” non sarà come altri perché in queste settimane io non mi sento come in altre passate in questo paese, perché il Messico di questi giorni non è il Messico di sempre. E’ molto peggio ed insieme molto meglio.
Quello che ha fatto “traboccare il vaso” – solo adesso penso che in questa nostra espressione il vaso può essere il bicchiere, come significa in spagnolo – sono i fatti di Ayotzinapa, di cui qualche eco è arrivata pure in Italia, anche se mi ha colpito il fatto che per parecchio tempo postando sul sito di Repubblica la ricerca della parola “Messico” quando appariva qualcosa eran sempre notizie assolutamente meno significative. Ayotzinalpa è nello stato di Guerrero, quello in cui si trova Acapulco, già nota località di villeggiatura internazionale. Ma Guerrero è anche lo stato in cui negli anni Settanta si era insediata una delle formazioni di guerriglia più attive ed uno di quelli in cui gli squilibri sociali si sentono più fortemente. Lì – ma molto spesso in questi giorni si usa il termine per moi molto più accessibile di Iguala, dove gli eventi in realtà si sono sviluppati – alla fine di settembre si è svolto un fatto sanguinoso che ora sta coinvolgendo tutto il paese. 

Qui è in atto un massiccio disegno di smantellamento di uno dei settori in cui la rivoluzione aveva lasciato i suoi segni più positivi: il sistema di educazione pubblica. Chi viene anche solo a visitare la capitale non si deve perdere la sede della Secretaria de Educacion Publica, corrispondente più o meno al nostro Ministero dell’Istruzione. Lì tutte le pareti di due vasti cortili sono adornate di murales di Diego Rivera, che rappresentano una visione rivoluzionaria della necessità del cambiamento; fa impressione per noi pensare che in una sede ministeriale si possano vedere scritte che costantemente inneggiano alla ribellione contro le ingiustizie, disegni in cui il popolo insorge contro una classe dominante dipinta come tanti maiali alla Grotz. Non so se presto si deciderà di cancellarli o quanto meno di spostare la sede della Secretaria, ma nel frattempo questo governo sta alacremente lavorando a smantellare pezzi di un sistema che ha fatto dell’educazione un terreno di contraddizione sociale e in cui i progetti di trasformazione hanno trovato spazio, se non altro consentendo l’accesso a strati popolari anche ai livelli più alti. Di questo disegno fa parte il progetto di “riduzione” del Politecnico Nacional, presso il quale io lavoro, a una funzione di formazione puramente tecnica, abbassando sia gli standard culturali che il valore dei titoli di studio conseguiti. Questo per facoltà universitarie – qui il Politecnico, ma non solo Ingegneria ed Architettura come in Italia, ma praticamente tutti i corsi tranne quelli più prettamente umanistici, per cui per esempio anche facoltà di Medicina, Legge od Economia, presenti anche all'Unam, la più grande Università del paese. Contro questo progetto il Politecnico è occupato da ormai più di un mese e non ci sono segni di cedimento; va ricordato che per esempio nel 1999 all’Unam una occupazione contro l’aumento delle tasse universitarie è durata dieci mesi, con una vittoria finale che ha consentito che ancora oggi per iscriversi si paghi un peso a semestre, vale a dire poco più di 5 centesimi di euro.

Della stagione riformatrice messicana fanno parte anche le “Escuelas Normales Rurales” diffuse in tutte le regioni ma sopra tutto in quelle in cui c’è una maggiore persenza agricola e, guarda caso, indigena e tra queste lo stato di Guerrero. La scuola “Normal” corrisponde alle nostre vecchie magistrali, in quanto ha come compito quello di fomare i maestri ed ha un corrispettivo in una facoltà universitaria. La versione “rural”, come suggerisce il termine, tiene conto dello specifico contesto in cui i maestri dovranno insegnare; tradizionalmente questo tipo di scuola ha una presenza di forte radicalità politica. Questo vale anche specificamente per la sede di Ayotzinapa, da cui veniva per esempio Lucio Cabañas Barrientos, maestro ma anche leader della guerriglia. Da questa scuola stavano partendo un gran numero di studenti per partecipare nella capitale alla manifestazione del 2 Ottobre, che ogni anno ricorda la sanguinosa repressione di Tlatelolco, la piazza in cui nel ’68 venne soffocato il sogno di ribellione studentesca, con centinaia di morti. Per raggiungere Città del Messico gli studenti si erano impossessati di pullman, che sono stati bloccati sull’autostrada a Iguala ed è iniziata una mattanza: sei i morti sul posto, ma 43 studenti, tra 16 e 20 anni, sono stati sequestrati dalla polizia e, a quanto sembra, consegnati a un consociata banda militare legata al narcotraffico. Di loro si sono perse le tracce e nei giorni successivi sono state scoperte diverse fosse, con decine di cadaveri, nessuno dei quali però corrispondeva ai rapiti. 

Già questa successione di eventi ha qualcosa di spaventoso, perché se da un lato ovviamente poteva essere ragione di speranza, dall’altra indica quanto sia macroscopico il fenomeno delle uccisioni e della scomparsa di persone. Solo recentemente è stata presentata una verità ufficiale: tre componenti della banda narcos avrebbero confessato di aver eliminato loro i 43 scomparsi, bruciandoli quando alcuni di loro erano ancora vivi e disperdendone le ceneri. Dire che questa versione buzza di bruciato non è solo una battuta di cattivo gusto un po’ macabro, perché sembra che così si voglia chiudere la faccenda. La violenza in Messico è un fenomeno che si può considerare endemico e negli ultimi anni la “guerra sporca” proclamata sotto la presidenza di Calderon ha accellerato il processo di disumanizzazione anche sul piano dell’immaginario collettivo, con cadaveri maciullati, appesi, bruciati esibiti quotidianamente su alcuni diffusissimi giornali quotidiani. La microcriminalità che colpisce quasi esclusivamente nei quartieri poveri, dove non c’è la vigilanza pubblica e privata che per esempio caratterizza il quartiere in cui abito, abitua a una gestione della violenza come qualcosa di inarrestabile e che non si può combattere, perché sui pullmini che percorrono in lungo ed in largo il territorio le rapine a mano armata sono all’ordine del giorno. Così si è voluto dipingere anche questo episodio, come un fattore di (dis)ordine pubblico “regolare”. 

Per fortuna non è stato accettato questo gioco. Da settimane la mobilitazione, partita dagli studenti, sembra inarrestabile. Io stesso ho assitito a molteplici azioni di controinformazione di gruppi che, per strada con minicortei e volantinaggio, come alla stazione del metro, indicavano una indisponibilità al silenzio che è un segnale di speranza. Nello stato di Guerrero  le azioni di protesta sono continue e radicali: in questi giorni sono stati volta a volta occupati l’aereoporto di Acapulco e l’autostrada, è stato dato l’assalto al palazzo di governo statale e le manifestazioni sono quotidiane. Mercoledì scorso vi è stata  una giornata di mobilitazione nazionale, in cui si è svolta nella capitale una manifestazione gigantesca, certamente la più grossa che io abbia mai visto da quando son qui. In quella data anche il Cenlex – isola di continuità del servizio, con la motivazione che a servirsene non sono solo gli studenti del Politecnico ma anche un pubblico generale – è stato bloccato al mattino da un gruppo di studenti che hanno occupato l’ingresso.
Io sono andato con tre amici alla marcia e ne sono stato veramente impressionato. Non solo dalla quantità di partecipanti, ma anche dalla varietà di soggettività che si esprimevano. Credevo che avrei visto sopra tutto studenti ma in realtà c'erano persone molto diverse da organizzazioni sociali e politiche – quasi del tutto assenti i partiti, tranne qualche delegazione di Morena, la recente formazione capeggiata dall’ex candidato alla presidenza Manuel Obrador – a reti di quartiere; ma anche monaci e suore, bande musicali. Davvero un popolo, che scandiva slogan fortemente emotivi. Uno ripeteva i numeri da 1 a 43 – e davvero sembrava di sentir fare l’appello dei ragazzi scomparsi – per poi esplodere in un grido che chiedeva “Justicia”. Uno dei tantissimi striscioni recitava una splendida verità: “Ci vogliono sotterrare, ma non sanno che noi siamo semi che generano alberi”. Sono rimasto così colpito da questa ricchezza di umanità che due giorni dopo, sul lavoro, ho voluto esprimere a tutti la mia solidarietà di straniero verso chi cerca d’impedire il silenzio su questo fatto atroce. “Colpevole è lo Stato” veniva ripetuto continuamente, a ricordare che non si tratta di un episodio confinabile in una singola realtà locale ma che va respinto tutto il disegno di attacco ai diritti, a partire dall’educazione. Dal palco nel comizio finale, dove hanno parlato solo esponenti delle associazioni che hanno dato vita alla mobilitazione –  mi ha colpito che le tre che ho ascoltato ed hanno parlato più a lungo fossero donne – si è ricordato come i 43 scomparsi siano solo gli ultimi di una lunga serie ed un’avvocatessa – che difende esponenti dei “Grupos de Autodefensa de Michoacán”, colpevoli di opporsi ai gruppi narcos quanto alle prepotenze dell’esercito – ha  fatto il numero di 200.000 desaparecidos. Fossero anche la centesima parte di questa cifra si tratterebbe comunque di una realtà inaccettabile, che chiarisce come il concetto di “stato di diritto” venga bellamente ignorato. Più di tutti, già nel corteo e poi sul palco, mi hanno impressionato i famigliari dei ragazzi scomparsi, che marciavano con le foto di ciascuno di loro,con scritto il nome e l’età. Alla mattino erano stati ricevuti nella residenza presidenziale, dove era stato loro offerto un indennizzo economico, che loro hanno con estrema dignità respinto in blocco, ricordando quanto li riempisse di sdegno che si sperasse da loro un sentimento di alleggerimento di fronte alla verifica che i cadaveri scoperti non era quelli dei loro congiunti, perché, hanno detto “tutti questi morti senza nome sono nostri figli”. 

Alla fine della manifestazione un gruppo d’incappucciati ha distrutto una stazione della metropolitana, guarda caso proprio nella Ciudad Universitaria, cuore della mobilitazione. Queste tecniche di provocazione non sono nuove qui come in Italia. Qualche giorno dopo, a conclusione di una marcia sugli stessi temi, un gruppo con le stesse caratteristiche ha incendiato una delle porte del Palacio Nacional, sede presidenziale che si affaccia sullo Zocalo, la vastissima piazza centrale. Più che evidente che sia stata un’azione concordata con le forze del (dis)ordine, che in genere presidiano in modo assai attento tutta l’area, protetta da cavalletti. Una fotografia ha documentato come a poca distanza, senza dare alcun segno di voler intervenire, ci fossero in effetti pattuglie di polizia. Che dunque il tutto serva a cercare di screditare la mobilitazione è del tutto pacifico. Per intanto la polizia si è poi gettata invece sulle tracce di manifestanti pacifici – e come non pensare a Genova 2001? – anche a grande distanza dal luogo in cui era avvenuto l’attacco. Un amico mi ha raccontato di suoi colleghi giornalisti che sono stati pestati ed uno è stato anche arrestato e per un’ora se ne erano perse le tracce. Ho capito ancora una volta perché qui quando qualcuno viene fermato urla il proprio nome e chi è intorno lo invita a farlo se non lo fa di propria iniziativa: il nome di un giovane giornalista è presto girato in rete ed anche ai giornali sono arrivate richieste d’informazione  a suo sostegno. Peccato che la testata, “Reforma” sia decisamente filogovernativa ed ora è possibile che, siccome non era inviato dalla redazione ma solo all’ultimo momento aveva ricevuto l’autorizzazione a seguire la manifestazione quando aveva telefonato al suo posto di lavoro – rischi adesso il licenziamento. Costui mi ha detto che almeno quattro erano i giornalisti che sono ricorsi all’assistenza medica convenzionata, ma probabilmente molti di più sono stati picchiati. Mi ha colpito il fatto che quando gli ho chiesto se del gruppo di suoi colleghi qualcuno avesse segnalato al momento dell’aggressione di essere giornalista, l’unico a farlo sia stato lui, perché non si sa se sia un vantaggio o no segnalarsi, ed in effetti fa dubitarlo ancor più il fatto che lui sia stato quello che ha avuto la razione più pesante di botte.

Come dicevo queste manifestazioni, questa volontà di rompere il muro di silenzio e complicità, mi sembrano l’unico vero segno di speranza in una situazione pesantissima, che non si capisce che esito potrà avere. Anche al di là del destino dei 43 scomparsi, perché credo che ben poche siano le speranze di trovarli ancora vivi.
Di fronte alla ricchezza della risposta sociale in realtà il vero problema mi sembra quello della traducibilità in termini politici, perché non mi sembra ci sia alcun percorso dentro le istituzioni che possa rappresentare queste volontà. Anche se giustamente il corteo a gran voce chideva le dimissioni del presidente del PRI colpisce il fatto che sia il governatore statale che il sindaco di Ayotzinapa, pesantemente coinvolti nella responsabilità di organizzare repressione e complicità tra forze addette alla sicurezza pubblica e bande di narcos, sono del PRD, teoricamente forza di sinistra e unica teorica “alternativa” al governo. In questa “inconsistenza” della politica istituzionale come strumento per rappresentare le esigenze sociali vedo una dimensione di parallelismo tra la realtà in cui sto vivendo e quella italiana. La drammaticità della situazione messicana non spinge più in là le mie considerazioni e per questo questa volta il mio diario non tocca altri temi. Ma mi vien da pensare che anche nel mio paese se pure ci sono finalmente segnali di forte mobilitazione sociale non vedo quali possano essere gli strumenti politici che potrebbero davvero rappresentare il dissenso.

Gigi Viola ( corrispondenza dal Messico), novembre 2014

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