1 novembre 2016

Referendum: La sovranità dei territori e le ragioni del No



di Laura Marchetti e Piero Bevilacqua *

Ricordiamo che l’art. 5 della Costituzione sancisce un’opera di bilanciamento fra lo Stato-Nazione e gli altri Enti intermedi (Comuni, Province, Regioni), togliendo al Centro l’onnipotenza del comando e permettendo alle periferie di esprimere controforze politiche e sociali più legate ai bisogni dei cittadini, alla prossimità ai luoghi, alla diversità di interessi territoriali differenziati. Un principio che ha consentito forme di controllo dal basso, pratiche di consultazione sociale, decentramento amministrativo, autorganizzazione e , in qualche caso, anche auto-governo. Così, in coerenza, anche l’art. 9 della Costituzione, prevede che sia la Repubblica e non lo Stato a tutelare l’ambiente, il paesaggio, i beni culturali: la Repubblica, cioè tutti i livelli istituzionali, dal grado più alto al più basso, i quali, avendo responsabilità, devono poter esercitare controllo e progettualità.

Anche la riforma del 2001 del titolo V della Costituzione, pur tra tanti limiti, manteneva questo impianto concorrente, spostando anzi ancora più in avanti poteri e competenze delle autonomie locali, in particolare delle Regioni. Poteri e competenze che invece sarebbero fortemente ridimensionati se passasse la riforma, la quale smantella ogni collaborazione fra le diverse istanze stabilendo invece, nella nuova formulazione dell’art. 117, un “principio di supremazia” dello Stato centrale , esercitabile soprattutto dal Governo più che dal Parlamento, che può avocare a sé tutte le decisioni in materia ambientale (che riguardano cioè la salute dei cittadini, il governo del territorio, le infrastrutture e le grandi reti strategiche di trasporto), ove lo richiedesse “l’interesse nazionale e la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”.

Tale “supremazia” centralistica – che non vale però per le Regioni a statuto speciale, in violazione palese del principio di uguaglianza – proviene da una valutazione politica discrezionale, non controllata nemmeno dalla stessa Corte Costituzionale che non può che prendere atto. Così ogni “grande opera”, anche privata, può diventare di interesse nazionale e di tutela dell’unità giuridica ed economica della nazione: la costruzione del Ponte sullo stretto, la linea dell’Alta velocità, i termovalorizzatori e gli inceneritori, gli elettrodotti, i gasdotti, le autostrade, i depositi di radioattività. Anche una nuova base americana potrebbe essere imposta nel territorio di qualunque comune d’Italia senza alcuna possibilità di opposizione da parte dei cittadini.
Sicuramente di interesse nazionale è “la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia “, la quale , già dal Decreto del 16 aprile del 2008, è legata anche al segreto di Stato e sottoposta ad una legislazione militare. Dunque sono di interesse nazionale , su cui comunità e cittadini ed Enti Locali non devono mettere il naso, le concessioni di carbone e di gas, le trivellazioni petrolifere che stanno per devastare la Puglia e la Calabria, la decarbonizzazione dell’Ilva, la deviazione possibile del Tap, e tutti gli impianti di interconnessione con i Balcani e con il Nordafrica.

Ma, facendosi sospettosi, si può pensare che l’ “interesse nazionale” che, per Costituzione, sottrae i beni ambientali alla vigilanza locale, potrebbe estendersi a tutto ciò che riguarda il cosiddetto Decreto “sblocca-Italia”, un decreto che parla lo stesso linguaggio “dell’interesse economico nazionale” e che, non a caso , è stato dichiarato incostituzionale (sentenza n. 7 del 2016) proprio per le norme che non prevedono il coinvolgimento delle Regioni, violando gli articoli 117 e 118 della Costituzione. Senza più gli impacci delle Regioni, senza più l’opposizione dei sindaci, molto più facilmente potrebbero essere rilanciate la Tav, le centrali inquinanti, oltre a tutte le misure previste per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, la semplificazione e deregulation delle bonifiche, la privatizzazione del servizio idrico.

Questo è il gioco, questo abbiamo in gioco: un Paese devastato dal cemento, una democrazia sempre più ristretta da una semplificazione concentrazionaria, un cambiamento della forma-Stato che non diventa più moderna, ma semplicemente più autoritaria sia nella rappresentanza politica sia per le questioni che più da vicino toccano la nostra esistenza.

* da il manifesto del 29 ottobre 2016

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