15 dicembre 2016

Referendum jobs act: l’occasione giusta per proporre l’election day




di Massimo Marino

L’11 gennaio avremo la probabile conferma della Corte Costituzionale (meno di due settimane prima del pronunciamento sull’Italicum) della validità del referendum detto “sul jobs act” cioè la legge 183 del 2014. In realtà si tratta di tre quesiti diversi attinenti all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori (che verrebbe reintegrato ed esteso) , sull’utilizzo dei voucher in piena espansione come surrogato di un salario vero e proprio   ( che si vogliono eliminare ) e sulle tutele dei lavoratori in appalti e subappalti ( abrogando parte dell’art.29 del decreto del 2003 più noto come legge Biagi ). Si tratta dei soli quesiti sopravvissuti alla cosiddetta “primavera dei referendum” dove importanti referendum non sono decollati per insufficienza di firme. Effetto probabile di una gestione sbagliata, a volte settaria, comunque inefficiente, da parte di diversi dei loro promotori che ha fatto sfumare una grande occasione di riforma in diversi settori cruciali del sistema sociale.  (Costituzione, regole elettorali, scuola, fonti fossili e incenerimento dei rifiuti. Oltre al lavoro che è appunto sopravvissuto).  Sulle conseguenze della primavera fallita ho a lungo argomentato ( qui ) .


Il referendum, quasi dimenticato dalla maggioranza dei commentatori per tre mesi, (così va l’Italia) è in realtà un nuovo durissimo terreno di confronto dove sostenitori e oppositori più o meno coerenti, almeno dalle prime battute recitano il solito, prevedibile, rituale di dichiarazioni. 


Gli oppositori, che sono in primo luogo la Confindustria e il PD, che hanno imposto il Jobs Act immaginando di avere di fronte un paese ormai frullato e pronto alla cura del renzismo, immaginano le solite strade per spegnere la miccia: la furbata, un pochino azzardata e poco probabile, di andare alle elezioni ( e quindi fare prima una nuova legge elettorale per le due camere ) entro la primavera per rimandare ( al mai ) il referendum, oppure fare, o simulare, qualche modifica alle due leggi coinvolte ( o ad una sola) in modo da evitare il ricorso al referendum in primavera o svuotarlo per far crollare la partecipazione. C’è sempre un Cuperlo di turno pronto alla bisogna.


I sostenitori, per prima la CGIL ma anche movimenti e frammenti della sinistra e in aggiunta il M5Stelle, a ragione protestano per l’ennesimo tentativo di affossare l’espressione di “democrazia diretta” dei tre quesiti abrogativi del referendum. Naturalmente con qualche elemento di entusiasmo motivato dai risultati del 4 dicembre. Però con qualche difficoltà, nella pratica, a fare proposte che sciolgano l’oggettivo intasamento di scadenze che si sta accumulando.


Non condivido naturalmente le tesi dei primi (gli oppositori ), ma neanche la superficialità e precarietà delle tesi dei secondi e spiego perché. Le ragioni sono due e la proposta per uscirne una.


Prima ragione: Nella primavera del 2017 (fra aprile e giugno) è prevista una manciata di elezioni comunali di rilievo: ben 978 comuni (ed altri di cui è previsto lo scioglimento entro il 24 febbraio). Fra questi 4 comuni capoluogo di regione (Palermo, Catanzaro, Genova, L’Aquila) e 22 comuni capoluogo di provincia (Alessandria, Asti, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lanusei, Lecce, Lodi, Lucca, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Trapani e Verona). Superano i 100.000 abitanti 8 città: Palermo, Genova, Monza, Padova, Parma, Piacenza, Taranto e Verona. In aggiunta sono previste le elezioni della Regione Sicilia che non sono programmate insieme a quelle del capoluogo, (fissate da Crocetta, o meglio da PD e UDC alleati di ferro in Sicilia, per il 5 e 19 giugno), ma al 15 e 29 ottobre (con un singolare doppio turno “alla siciliana” che non c’è nelle altre regioni).  Tralascio, per pietà, la sorte delle Provincie che vedranno nel 2017 una folta manciata di elezioni (di secondo grado dove al posto di elettori ci saranno i consiglieri comunali, stile Senato bocciato del renzismo).


Seconda ragione: I referendum abrogativi sono uno strumento serio, da tempo in crisi per mancanza di quorum. I quattro referendum del 2011 e quello del 4 dicembre fanno eccezione per l’importanza dei temi ma soprattutto per la molteplicità dei promotori e degli argomenti sommati alla contingenza del momento. Nel 2011 si votava insieme per l’acqua pubblica, contro il nucleare e di fatto contro Berlusconi e a tre mesi dall’incidente di Fucushima. Il 4 dicembre scorso si sono uniti insieme il rifiuto di snaturare e impoverire la nostra Costituzione, un voto contro il governo proveniente da partiti di aree molto diverse (un caso molto raro) ed un diffuso voto contro Renzi e il renzismo come “governanti arroganti e indifferenti” da parte dei settori più disagiati della società italiana, ad esempio giovani precari ed elettori delle aree del sud.  Sulla crisi dello strumento referendum sono state lanciate proposte in più occasioni, probabilmente con una certa superficialità, basate sull’idea di ridurre il quorum al di sotto del 50%. Una cura peggiore del male, pericolosissima, con la quale si legittima l’ipotesi che anche una minoranza decide per tutti e che l’astensionismo diffuso è una singolare malattia a cui ci si può anche abituare.


Siamo insomma di fronte ad un accavallarsi di scadenze e di strumenti istituzionali degradati negli anni a causa della incapacità riformatrice dell’intero sistema dei partiti concentrati a tutelare solo l’integrità del proprio ombelico. Per fare un esempio qualcuno ha pensato che un elettore palermitano dovrebbe votare nel corso di dodici mesi quattro volte, che potrebbero anche diventare 5 o 6? 


La proposta per cominciare ad uscirne è in realtà la scoperta dell’acqua calda perché è già attuata in altri paesi. E cioè l’introduzione dell’Election Day, cioè del progressivo concentrare delle scadenze elettorali in una data precisa di uno stesso anno ( ad esempio la domenica vicina al 25 aprile ) e in più concentrando nell’ anno di scadenza più vicino ( per le regionali e comunali, o per le politiche o per le europee ) anche  gli eventuali referendum  promossi nel frattempo; con maggiori possibilità di partecipazione  mantenendo il quorum attuale del 50%.


In un recente intervento ( qui ) ho indicato questa proposta in un più largo insieme di proposte di riforma che sono la vera emergenza del nostro paese dove si dice riforma ma si intende, fino ad oggi, restaurazione.  Possiamo ignorare che con l’abolizione (simulata) delle Province, che andavano invece ridotte da 110 a una cinquantina, siamo in pieno caos? Che dovremmo ridurre di almeno un quarto il numero di Regioni accorpando le più piccole? Che sarebbe ragionevole ridurre di altrettanto i 1000 parlamentari, se la loro rappresentanza è proporzionale ai voti espressi, fuori da qualunque venatura populista e senza toccare neanche una virgola della nostra Costituzione?

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