2 agosto 2017

Siamo troppi?



Le conseguenze della crescita della popolazione mondiale, tra cambiamento climatico e politiche di contenimento.

di Davide Michielin *

 “Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove”. Così, nel capitolo della Genesi dedicato alla creazione, il padreterno si rivolge ad Adamo ed Eva. Oggi gli esemplari di Homo sapiens sono 7,5 miliardi. Un numero impressionante se si tiene conto che appena due secoli fa l’umanità festeggiava il suo primo miliardo. In questo lasso di tempo, il progresso ha aumentato qualità e aspettative di vita, spingendo la nostra specie a intraprendere una crescita vertiginosa dai ritmi sempre più serrati: eravamo 1.6 miliardi nel 1900, 2.5 miliardi nel 1950, 4 miliardi nel 1975, 6 miliardi nel 2000, 7 miliardi nel 2011.

Nonostante il tasso di crescita sia oggi quasi dimezzato rispetto all’apice raggiunto nel 1964, è quasi certo che entro il 2100 la popolazione mondiale sarà ben più numerosa dei 9 miliardi di individui storicamente previsti, e potrebbe persino superare gli 11 miliardi. Uno studio apparso su Science nel 2014, condotto dai ricercatori dell’Università di Washington e dagli esperti delle Nazioni Unite, ha calcolato che la probabilità che la popolazione mondiale non si stabilizzi entro questo secolo è superiore al 70%. La ricerca ha costretto le stesse Nazioni Unite a redigere una revisione del consueto rapporto biennale: il problema demografico deve fare ritorno nell’agenda delle organizzazioni mondiali. Allo storico interrogativo sulla sicurezza alimentare, nell’ultimo decennio si sono aggiunti il cambiamento climatico e l’inurbamento della popolazione, due elementi che minacciano di far saltare un banco già traballante.

Il progresso non ha migliorato solamente le condizioni igienico sanitarie e le rese agricole ma ha plasmato stili di vita sempre più energivori: le emissioni di CO2 pro capite sono passate da 3,1 tonnellate equivalenti nel 1960 a 5 nel 2013. Tuttavia, la popolazione del pianeta cresce, mangia e consuma a velocità molto diverse. Uno statunitense produce 15 tonnellate equivalenti di CO2 all’anno, un italiano 9 tonnellate equivalenti mentre un abitante dell’Africa sub-sahariana non raggiunge la tonnellata equivalente. Un maggiore numero di automobili, smartphone e climatizzatori comportano una maggiore richiesta energetica che, se dovesse provenire dalla combustione di fonti fossili, porterebbe all’esasperazione gli effetti del cambiamento climatico. Cosa ne sarebbe del pianeta se la transizione alle rinnovabili stentasse a decollare e nel frattempo i restanti sei miliardi di persone adottassero l’insostenibile stile di vita occidentale? Fuori dall’Europa della stagnazione demografica, si è ripreso timidamente a parlare della questione.

Malthus, la povertà e le colonie del New England
Il dibattito sul controllo della popolazione ha inizio nel 1798 con la pubblicazione, inizialmente anonima, del Saggio sul principio di popolazione da parte di Thomas Malthus.
Cresciuto in una famiglia benestante del Surrey e presto ordinato pastore anglicano, Malthus fu un brillante economista, fondatore della controversa dottrina politica che da lui prende il nome. Osservando le colonie del New England, dove la disponibilità “illimitata” di terra fertile forniva lo scenario ideale per indagare il rapporto tra risorse naturali e demografia, Malthus teorizzò che popolazione umana e disponibilità delle risorse seguano modelli di progressione differenti: geometrica la prima, aritmetica la seconda. Un maggior numero di esseri umani si traduce, proporzionalmente, in una minore disponibilità di risorse per sfamarli. Qualora i mezzi di sussistenza non siano illimitati, scriveva il reverendo, si sarebbero periodicamente verificate carestie con conseguenti guerre ed epidemie.
Allo storico interrogativo sulla sicurezza alimentare, nell’ultimo decennio si sono aggiunti il cambiamento climatico e l’inurbamento della popolazione. Convinto di aver individuato una legge naturale, Malthus propose che il governo abolisse i sussidi alle classi più povere, invitasse i giovani a ritardare l’età del matrimonio e si sforzasse di diffondere tra gli strati sociali meno abbienti la coscienza del danno che una prole numerosa recava alle famiglie e all’intera comunità. I rapidi progressi del settore agronomico sconfessarono già nel corso del XIX secolo il suo impopolare principio, che tuttavia ebbe un’influenza decisiva sia su Charles Darwin che su Alfred Wallace nella formulazione della teoria dell’evoluzione. Tuttavia, l’idea malthusiana che i ricchi siano minacciati dalle masse di poveri ha proiettato un’ombra cupa che si allunga fino a oggi.
Chi ha paura di Malthus?
Negli anni Sessanta la Banca Mondiale e le Nazioni Unite incominciarono a concentrarsi sull’esplosione demografica del cosiddetto Terzo Mondo, ritenendola la principale causa del degrado ambientale, del sottosviluppo economico e dell’instabilità politica di questi paesi. Alcune nazioni industrializzate quali Giappone, Svezia e Regno Unito finanziarono progetti per ridurre i tassi di natalità del Terzo Mondo. Non si trattava di filantropia: secondo Betsy Hartmann, autrice del saggio “Reproductive Rights and Wrongs: The Global Politics of Population Control and Contraceptive Choice”, c’era il timore che le “masse di affamati” minacciassero il capitalismo occidentale e l’accesso alle risorse naturali.
Nel 1968 suscitò scalpore la pubblicazione di “The Population Bomb” del biologo Paul Ehrlich. In questo saggio, divenuto in breve un bestseller e il manifesto del neomalthusianesimo, Ehrlich sosteneva che fosse già tardi per salvare alcuni Paesi dagli effetti della sovrappopolazione, prospettando un disastro ecologico nel quale avrebbero perso la vita centinaia di milioni di persone. Fortunatamente, l’avvento della cosiddetta “rivoluzione verde” consentì negli anni Sessanta e Settanta un incremento significativo delle produzioni agricole, disinnescando la bomba demografica predetta da Ehrlich. La più celebre politica di contenimento della popolazione è quella del figlio unico adottata dal governo cinese: controversa ma efficace, ebbe profonde conseguenze sulla società.
Nonostante Karan Singh, ministro della Salute indiano, avesse dichiarato nel 1974 che “lo sviluppo è il miglior contraccettivo”, il suo governo aveva avviato nel frattempo una subdola politica di controllo delle nascite. A emarginati e mendicanti di Delhi fu offerta un’abitazione purché accettassero di sottoporsi a sterilizzazione. Il programma indiano è durato meno di due anni, ma nel solo 1975 furono sterilizzati quasi otto milioni di cittadini indiani, principalmente maschi. La più celebre politica di contenimento della popolazione, è però quella del figlio unico adottata dal governo cinese tra il 1979 e il 2013. Una misura draconiana che, secondo alcune stime, nei suoi primi 25 anni di attuazione ha prevenuto la nascita di circa 300 milioni di individui: nel solo 1983 furono sterilizzati oltre sedici milioni di donne e quattro milioni di uomini. La controversa ma efficace politica del figlio unico ebbe profonde conseguenze sulla società cinese. Crebbero infatti il numero di aborti e l’abbandono di neonate, creando le basi per l’attuale sbilanciamento nel rapporto tra i sessi all’interno del paese.
Nei primi anni ‘80 cominciarono a farsi strada le prime obiezioni alle politiche di controllo della popolazione, soprattutto negli Stati Uniti. L’amministrazione Reagan sospese il sostegno finanziario ai programmi che prevedessero l’aborto o la sterilizzazione, riscuotendo l’approvazione delle principali confessioni religiose. Nel Paese, il consenso sulla necessità di arginare il tasso di natalità mondiale cominciò a dissolversi, sebbene per ragioni differenti in base allo schieramento politico. Tra i Repubblicani si facevano strada obiezioni morali al controllo della popolazione, i Democratici vedevano queste politiche come una forma di neocolonialismo.

Le politiche demografiche oggi
La definitiva messa al bando dei modelli top-down nel controllo della popolazione non fu opera né dei democratici né dei repubblicani americani: avvenne sulla spinta delle associazioni per i diritti delle donne. In occasione della prima conferenza internazionale su sviluppo e popolazione, tenutasi a Il Cairo nel 1994, i delegati di 179 paesi ratificarono un programma di azione basato sulla legittimazione della donna.
Nella dichiarazione si sosteneva per la prima volta che i bisogni di istruzione e salute, compresa quella riproduttiva, sono strumenti fondamentali per il miglioramento delle condizioni di vita individuali e per uno sviluppo equo e sostenibile. Promuovere la parità di genere, eliminare la violenza contro le donne, consentire loro di avere il controllo delle risorse e partecipare direttamente alle decisioni che riguardano la propria vita – a partire dalla scelta di quanti figli avere e quando – sono oggi ritenuti elementi essenziali per il successo delle politiche di sviluppo. Di esempio sono i nuovi Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite nei quali gli aspetti demografici non sono più calati sulla testa delle persone persone ma si articolano piuttosto sui processi partecipativi.

Tanti oppure troppi?
Troppo, troppo, troppo: le persone, il divario tra ricchi e poveri e pure l’inefficienza nella distribuzione del cibo. Così Ehrlich, oggi direttore del Centro di Biologia della Conservazione dell’Università di Standford, riassumeva nel luglio del 2015 l’attuale spinta demografica in un’intervista rilasciata al Washington Post. Confrontando l’attuale popolazione mondiale con qualsivoglia epoca precedente, è impossibile negare che siamo tanti. Ma quand’è che il tanto diventa troppo?
In ambito ecologico, la capacità portante di un ambiente è la capacità delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. Se in ambienti ridotti o isolati è relativamente semplice stimarne la dimensione, il calcolo della capacità portante dei grandi sistemi è estremamente complesso. Una relazione del 2012 delle Nazioni Unite ha stimato la dimensione massima di popolazione in 65 diversi scenari sostenibili. La dimensione più ricorrente è di otto miliardi di individui, tuttavia l’intervallo varia tra un minimo di due miliardi e uno sconcertante 1024 miliardi. È difficile sbilanciarsi su quale di queste sia la più prossima al valore effettivo. Secondo gli esperti, il fattore determinante sarà il modello che le nostre società sceglieranno di adottare e, in particolare, la quantità di risorse consumate pro capite. Confrontando l’attuale popolazione mondiale con qualsivoglia epoca precedente, è impossibile negare che siamo tanti. Ma quand’è che il tanto diventa troppo?

Le incognite riguardano principalmente il compartimento agricolo. Al contrario della popolazione umana, la disponibilità di suolo fertile diminuisce a causa del sovrasfruttamento e dei cambiamenti climatici. Secondo i dati della FAO, da qui alla fine del secolo la produzione agricola dovrebbe aumentare almeno del 50% per sfamarci tutti, a partire da una modesta area di terreno fertile, che copre solo l’11% della superficie globale della terra. Eppure, l’agricoltura mondiale perde ogni anno 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile, l’equivalente di 10 milioni di ettari, a causa di urbanizzazione, erosione e avanzata del deserto e del mare. Altri 20 milioni di ettari vengono abbandonati perché il terreno è troppo degradato per coltivare, in larga misura per colpa delle tecniche agricole intensive. La perdita di fertilità del suolo porta alla riduzione della produzione agricola: un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti. Il fenomeno non è uguale dappertutto, ma procede particolarmente veloce proprio nelle aree che avrebbero più bisogno di ampliare le coltivazioni come la Cina, flagellata dalla desertificazione. 

A tutto gas
Le conseguenze ambientali dell’esplosione demografica non si esauriscono nel consumo di risorse naturali (acqua, suolo, biodiversità) ma sono correlate alla quantità di emissioni di gas serra liberata in atmosfera. La crescita dei consumatori, l’inurbamento della popolazione rurale e la rapida diffusione nel pianeta di standard di vita ad alta emissione di gas serra sono le principali tendenze su cui basare le proiezioni sul destino del pianeta.
L’inurbamento è spesso considerato un fenomeno positivo, accompagnato da miglioramenti dell’istruzione, riduzione dei tassi di natalità, dello sfruttamento di risorse naturali. Tuttavia, esso comporta l’adeguamento a standard di vita con alti consumi e il conseguente aumento dell’inquinamento (come osservato nelle megalopoli asiatiche degli ultimi decenni) con ricadute dirette sulla salute dei cittadini. A livello globale, le emissioni domestiche rappresentano oltre il 60% del totale; un ulteriore 14.5% delle emissioni di CO2 proviene dagli allevamenti, i quali riforniscono principalmente le tavole di europei e nordamericani.
Nei soli paesi industrializzati, i consumi individuali rappresentano il 32.6% del totale delle emissioni. È stato calcolato che l’abbandono di una dieta basata sul consumo di carne comporterebbe entro il 2050 una riduzione dell’emissione di gas serra tra il 29% e il 70%.
Alcuni ricercatori sono perfino arrivati a stimare “il costo” ambientale di ogni figlio: negli Stati Uniti, ogni fiocco appeso alla porta equivale a 9.441 t.e. di CO2, il 5,4% in più rispetto a quanto avrebbe emesso la donna se nella sua vita avesse deciso di non procreare. 

Una provocazione, forse.

* Davide Michielin è biologo di formazione, scrive di viaggi e ambiente con particolare occhio di riguardo per le tematiche legate ai fiumi e all'inquinamento.
 Articolo da  www.iltascabile.com , 18 maggio 2017 - Immagine: Philippe Desmazes/Getty Images


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