13 marzo 2024

Sardegna, Abruzzo ed altri animali fantastici

 di Massimo Marino

Siete sicuri  di conoscere chi ha vinto le elezioni in Sardegna, perché ha vinto, cosa ha vinto ? E in Abruzzo com’è che una coalizione più larga ha perso ? Ancora una volta un sistema di voto demenziale nel quale gli elettori attivi rimasti cercano di esprimere la propria scelta, ha colpito ancora ( e forse questa volta ci è andata bene ).

 Proviamo a fare un po' di luce ( e gli scongiuri sul futuro della Sardegna e dell’Abruzzo).

CHI HA VINTO

- In Sardegna secondo le regole della legge elettorale regionale ( modificate di recente dal Consiglio uscente) ha vinto la candidata Presidente Alessandra Todde per circa 1600 voti in più del secondo candidato su 1.447.753  aventi diritto al voto. I due candidati di fatto erano pressoché alla pari ma le 10 liste che  hanno sostenuta la Todde si divideranno il 60% dei seggi ( cioè 36 su 60 ). Poiché la coalizione di 5 liste a sostegno di Soru non ha raggiunto il 10% non avrà eletti ( singolare !)  e quindi le 9 liste a sostegno di Truzzu avranno tutti gli altri 24 seggi ( ri-singolare ! ) .

Preciso: se fossi stato sardo avrei votato anch’io Todde e i 5stelle, non avrei trovato alternative. La Todde è persona seria ma con soli tre anni di esperienza politica in prima linea. Il sistema elettorale bislacco ha prodotto un Consiglio con 60 eletti di 16 liste diverse. ( Ma l’introduzione del maggioritario e delle coalizioni pre-voto in varie forme nel corso degli ultimi decenni non doveva contenere la frammentazione ? ).

Sul vento che cambia e i media  che inventano animali fantastici io andrei  molto cauto. Al momento l’unico vento serio è quello riguardante pale eoliche e rinnovabili su cui le associazioni ambientaliste sarde chiedono l’abbandono di carbone e olio combustibile, l’aggiramento del gas e la transizione rapida alle rinnovabili. Una bella scommessa l’isola verde indicata anche dalla Todde e dai 10 alleati nel documento programmatico di 203 pagine della coalizione. Spero sinceramente che se la cavi: si comincerà a capire  fra 1-2 anni.

In termini di voti Todde ha ottenuto circa  332.000 voti ( cioè il 22,9 % del totale aventi diritto). Truzzu ne ha ottenuti all’incirca 1600 in meno ( neanche un decimale in meno del 22,9% ). Il terzo ( Soru ) circa 63.000.

Le 10 liste di Todde ( due delle quali, Sardegna20venti e Fortza Paris, nelle precedenti elezioni del 2019 erano nella coalizione di cdx ) hanno ottenuto circa 291.000 voti. I 36 seggi della maggioranza sono ripartiti fra 8 liste ( 12 al PD , altri 11 sommando M5S e lista civica Todde, 4 agli ecosinistri di AVS, 9 ad altre 4 liste). 

Le 9 liste di Truzzu hanno ottenuto circa 329.000 voti ( circa 38.000 voti in più di quelle di Todde) . I 24 seggi sono ripartiti fra 8 liste (7 a FdI , 3 a Forza Italia, 2 alla Lega, altri 12 ad altre 5 liste ) .

- Nelle precedenti elezioni regionali del 2019 ( vinte dal CDX con Solinas ) i candidati presidenti erano 7 invece di 4 e le liste in totale una in meno (24 invece di 25 ) Il candidato del tradizionale CSX (Zedda) aveva perso con circa 251 mila voti e quello del M5S con  85.000. La somma dei due ( 336mila)  è stata in realtà superiore ai voti ottenuti adesso da Todde (4mila in più ).. Altri 4 candidati avevano ottenuto in totale circa 60 .000 voti ( vicini ai 63mila ottenuti adesso da Soru) e nessun eletto. Il vincente Solinas aveva ottenuto 364.000  voti cioè il 24,8 % del totale aventi diritto che erano 1.470.404 ( Solinas quindi ottenne  circa 32 mila voti in più di Todde e di Truzzu ).

- Nelle elezioni politiche del settembre 2022 in Sardegna erano presenti 14 liste in totale. Con riferimento alla Camera dei deputati gli aventi diritto erano 1.342.551 . Quattro liste erano assimilabili agli attuali sostenitori di Todde e ottennero circa  325mila  voti. Fra queste il M5S con 149mila voti, il PD con 127mila, AVS con 36mila. 

Insomma capire chi ha vinto e il vento che tira mi sembra questione da prendere con prudenza. Io vedo una situazione di prevalente  immobilità e pochissimi cambiamenti di rilievo.

Nel successivo voto in Abruzzo il risultato mi è  sembrato più chiaro. Il campo largo di CSX , che più largo non si può, smentisce un altro animale fantastico che aleggia da tempo: “più siamo uniti più vinciamo” ( sicuri? con Renzi e Calenda più alcuni multisimboli ingombranti e senza voti ? ).

Sul tema condivido Travaglio di ieri ( qui ) : “ Il sistema bipolare e maggioritario dell’elezione diretta a turno unico dei presidenti di Regione – o di qua o di là – espelle dalle urne gli elettori che non vogliono farsi ingabbiare in due ammucchiate: infatti in Sardegna e in Abruzzo il 48%, ( in realtà il 51% )  un elettore su due, non ha votato “ . In effetti se fossi stato abruzzese mi sarei chiesto: ma che ci azzeccano questi con il M5S e il vento di cambiamento?  Si dimentica che il partito dell’astensionismo militante è di gran lunga il più numeroso  e parecchio prevenuto ed alla fine è quello che determina quale minoranza  vince.  

Il campo largo è ideato come un panino:  all’esterno da una parte si mette una fetta di Renzi/Calenda/Magi, dall’altra di 5Stelle ed ecosinistri, in mezzo una bella fetta di salame  PD. La speranza è che nel turbine di incerti sapori si scelga per prudenza di mangiare solo la fetta di salame in mezzo e scartare il resto. Così l’immobilismo è garantito. E’ la versione aggiornata per necessità del partito a vocazione maggioritaria, l’animale fantastico di Veltroni che ai paninari ( gli elettori) non è piaciuto per niente e lo ha portato alla disoccupazione..

Anche qui condivido  Travaglio: “ .. meglio il proporzionale, che coinvolge tutti i cittadini. L’ubriacatura bipolare del berlusconismo è finita nel 2013 con l’avvento dei 5 Stelle, malgrado i tentativi renziani di riesumarne il cadavere (puniti dagli elettori) e l’operazione Draghi per livellare tutti i partiti su un unico programma, la sua fantomatica Agenda (bocciata dagli elettori). La politica è fatica, mediazione, compromesso fra istanze e interessi diversi e incomprimibili in due blocchi .. Prima che metà degli elettori abbandoni stabilmente i seggi, è il caso di prenderne atto e tornare al proporzionale, anche con uno sbarramento fino al 5% che costringa i partitini simili a unirsi, e con la preferenza unica che impedisca le doppiette e le triplette mafiose e clientelari da Prima Repubblica…”

L’ASTENSIONISMO E L’ELECTION DAY

Il risultato in Sardegna ha assunto come prevedibile una crescente importanza, vera o presunta, con l’avvicinarsi del voto. Con l’ovvia  aspettativa di avere una maggiore affluenza.  La realtà invece, come spesso avviene, ha tradito il fantasioso  argomentare dei media. L’astensionismo ( compreso come è logico le bianche e le nulle ) ha ancora ridotto il voto attivo al 50,4 % per i presidenti e 47,2% per le 25 liste presenti. Alle regionali del 2019 erano rispettivamente il 51,8% per i presidenti e 48,6 % per le 24 liste. In mezzo, alle politiche del settembre 2022, i votanti sono stati il 51,06 %. A questi andrebbero aggiunti gli estimatori del voto a perdere, quello verso liste che, con le regole attuali  hanno probabilità di successo vicino a zero. In Italia il voto a perdere arriva almeno a 1,5-2 milioni di voti e tocca pochissimo il CDX.

L’astensionismo continua seppure lentamente ad aumentare ancora, segnale evidente che nell’insieme non si percepivano dirompenti novità ( buone o cattive che fossero). Alle politiche precedenti del 2013 e 2018 il successo dei 5stelle e le forti aspettative avevano portato invece ad una tenuta  della partecipazione sopra il 70%. I dati ( confermati anche in Abruzzo ) indicano quindi che al momento l’astensionismo si sta consolidando: almeno 50-51 elettori su 100 non vedono ragioni per andare a votare.  Ho più volte espresso l’opinione che per almeno la metà si tratti di “astensionismo militante” cioè di elettori per niente “ spoliticizzati”  ne “sonnambuli” ma invece  delusi da loro  precedenti  riferimenti, in tanti casi ex militanti provati dai tanti fallimenti dei loro referenti e leader ( i sondaggisti chiamano tutti, sbagliando, “voto d’opinione”) .  Per gli altri invece, quelli che hanno oggettive difficoltà a recarsi al voto, non si prendono iniziative innovative  per rendere più facile la partecipazione, specie ai fuori sede. Io scarterei la strada del voto per posta ( poco efficace e pericoloso ). Meglio attivare un seggio speciale in ogni capoluogo di provincia ( quindi un centinaio ) anticipando in questi apertura e chiusura di un giorno e inviando subito i risultati, attraverso un nodo centrale,  ai singoli Comuni.

Si è parlato  di election day ( finto) poiché con le Europee di giugno avremo  anche la Regione Piemonte e il primo turno di molti  Comuni ( fra cui 27 capoluoghi di Provincia ). In realtà prima in Aprile avremo la Basilicata e questo inverno l’Umbria ( conoscete un altro paese al mondo dove si vota 5-6 volte nello stesso anno ? ). In aggiunta resta in sospeso il destino di più di 100 provincie dove si vorrebbe ripristinare il vecchio sistema di voto primario entro l’anno. Ma non sarebbe il caso di dimezzare le nuove Provincie proliferate in modo irragionevole per due decenni  e cominciare lì a reintrodurre un proporzionale con quorum al 5%  per impedire l’esplosione di molte centinaia di liste ? Solo il padreterno sa quale altro astruso marchingegno inventeranno per le Provincie nell’unico paese del mondo dove pur con sistemi a base maggioritaria e forzosamente bipolari ci sono ormai decine e decine di liste, con più di dieci sistemi elettorali diversi e almeno 50 elettori su 100 che non votano.

L’unica cosa da invidiare e copiare del sistema di voto americano ( il resto è demenziale)  è la concentrazione di tutto il voto sempre nella stessa data di novembre ogni 4 anni, al quale lì hanno aggiunto, sempre in novembre,  il voto di mezzo termine a metà percorso per complicarsi la vita. Io  aggiungerei invece la soglia del 5% alla tedesca in tutti i tipi di votazioni dai Comuni al Parlamento. Gradualmente potremmo introdurre il voto di qualunque tipo ( compresi eventuali referendum) sempre nella stessa data   dell’anno  concentrando ogni  4 anni  la scadenza delle Politiche seguite a metà percorso dalle Europee. In pratica voteremmo ogni 24 mesi con un enorme semplificazione di costi, maggiore propensione a fondersi in soggetti politici  stabili con minore frammentazione e con maggiore chiarezza sui programmi. Avremmo comunque almeno  7-8 partiti garanti del pluralismo ma con maggiore stabilità e serietà.

Invece abbiamo una  permanente campagna elettorale dove si inventano ogni due mesi fantasiosi appuntamenti decisivi, convergenze, irreali proposte preelettorali, giravolte e cambi di regole e di casacca che sono ormai la caratteristica dilagante della misera politica all’italiana. 

Ad aprile si ricomincia con la Basilicata. 

13 marzo 2024

Torniamo al proporzionale

 

di Marco Travaglio *

Sull’Abruzzo ripetiamo quello che avevamo detto della Sardegna e di tutte le altre consultazioni locali: le elezioni regionali riflettono la situazione del posto. La maggioranza degli abruzzesi non era schifata dai suoi governanti di destra quanto quella dei sardi. Le tante liste pro Marsilio hanno attirato più voti di quelle pro D’Amico. Che non era innovativo e portatore di esperienza e di narrazione appassionanti e trasversali quanto Alessandra Todde. E gran parte degli elettori 5 Stelle, vedendo dietro di lui il vecchio ras pidino Luciano D’Alfonso, hanno preferito astenersi. Tantopiù che, diversamente dalla Sardegna, il campo progressista andava fino a Calenda e perfino a Renzi.

L’unica lezione “nazionale” che possono trarre Schlein, Conte e gli altri oppositori del governo Meloni è che quest’idea messianica del campo larghissimo non porta voti larghissimi. Con coalizioni eterogenee buone per votare “contro”, ma non per costruire un governo credibile, i voti non si guadagnano, ma si perdono.

Il sistema bipolare e maggioritario dell’elezione diretta a turno unico dei presidenti di Regione – o di qua o di là – espelle dalle urne gli elettori che non vogliono farsi ingabbiare in due ammucchiate: infatti in Sardegna e in Abruzzo il 48%, un elettore su due, non ha votato. Meglio il doppio turno dei comuni, più rispettoso delle differenze.

Ancor meglio il proporzionale, che coinvolge tutti i cittadini. L’ubriacatura bipolare del berlusconismo è finita nel 2013 con l’avvento dei 5 Stelle, malgrado i tentativi renziani di riesumarne il cadavere (puniti dagli elettori) e l’operazione Draghi per livellare tutti i partiti su un unico programma, la sua fantomatica Agenda (bocciata dagli elettori). La politica è fatica, mediazione, compromesso fra istanze e interessi diversi e incomprimibili in due blocchi, specie in un Paese individualista e sfaccettato come l’Italia. Prima che metà degli elettori abbandoni stabilmente i seggi, è il caso di prenderne atto e tornare al proporzionale, anche con uno sbarramento fino al 5% che costringa i partitini simili a unirsi, e con la preferenza unica che impedisca le doppiette e le triplette mafiose e clientelari da Prima Repubblica.

Dovrebbero proporlo Pd e 5Stelle, che fra l’altro ne avrebbero la maggior convenienza e dovrebbero abbandonare l’idea mefitica e mortifera dell’“alleanza strutturale”, di qui all’eternità e “a prescindere”. E potrebbero incrociare gli interessi di Lega e FI, tutt’altro che ansiosi di farsi fagocitare dalla Meloni, nonché delle forze di centro e di sinistra. L’unico modo per recuperare gli astenuti, oltre alla buona politica, è esaltare le diversità e le differenze non solo nelle parole, ma anche nelle urne. E poi allearsi con chi è più vicino, o meno lontano.

* da  Il Fatto quotidiano - 12 marzo 2024

8 marzo 2024

Haiti precipita nel caos

Dal 29 febbraio ad Haiti, il paese più povero delle Americhe, gli attacchi delle bande armate che controllano intere regioni e gran parte della capitale Port-au-Prince si sono intensificati. In pochi giorni i gruppi criminali hanno assaltato un’accademia di polizia e alcune infrastrutture chiave, come il porto e l’aeroporto internazionale Toussaint-Louverture. Tutti i voli nazionali e internazionali sono stati sospesi a causa degli attacchi e di ripetuti tentativi di fare irruzione nelle piste. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo le bande criminali sono entrate nei due penitenziari più grandi del paese, quello nazionale e la prigione di Croix-des-Bouqets, facendo evadere migliaia di detenuti. Né il governo né l’amministrazione penitenziaria di Haiti hanno comunicato il numero preciso dei prigionieri rimasti. Ma alcuni giornalisti che la mattina dopo gli attacchi hanno visitato il penitenziario nazionale hanno riferito che nelle celle c’erano solo un centinaio di persone, tra cui diciassette ex soldati colombiani accusati dell’omicidio del presidente Jovenel Moïse, ucciso a luglio del 2021 nella sua casa di Port-au-Prince. E nelle strade intorno alla prigione almeno dieci cadaveri.

Dopo gli attacchi alle prigioni il governo haitiano ha dichiarato lo stato d’emergenza e un coprifuoco per permettere alle forze di sicurezza, già decimate, di riprendere il controllo della situazione e arginare la violenza delle bande criminali. Da tempo ad Haiti la polizia non è in grado di garantire l’ordine: si stima che ci siano solo diecimila agenti in servizio quando secondo le Nazioni Unite ne servirebbero almeno 26mila. Sempre secondo le Nazioni Unite nel 2023 le bande criminali sono state responsabili dell’uccisione di quattromila persone e del rapimento di altre tremila. Sono numeri altissimi per un paese di undici milioni di abitanti. Sono aumentate anche le violenze sessuali, metà degli haitiani non ha da mangiare a sufficienza e ci sono circa 200mila sfollati interni. L’elettricità, l’acqua potabile e le raccolta dei rifiuti funzionano poco e male, con conseguenze sanitarie molto gravi. La popolazione vive nel terrore, spesso è costretta a barricarsi in casa. L’economia informale, che è fondamentale per il paese, è completamente paralizzata, le scuole hanno chiuso e gli ospedali sono difficili da raggiungere. Mentre la violenza delle bande si intensificava, il primo ministro Ariel Henry (che avrebbe dovuto dimettersi all’inizio di febbraio) si trovava a Nairobi, in Kenya, per discutere con il presidente William Ruto un accordo per inviare una forza di sicurezza multinazionale ad Haiti. Anche se non ha il divieto di rientrare nel paese, scrive il quotidiano Le Nouvelliste, di ritorno dalla visita ufficiale in Kenya il 5 marzo Henry è stato costretto ad atterrare a Puerto Rico dopo aver cercato inutilmente di fermarsi nella Repubblica Dominicana. Il governo di Santo Domingo ha infatti imposto il divieto di volo tra i due paesi, che condividono l’isola di Hispaniola. Lo stesso giorno il leader criminale Jimmy Chérizier, soprannominato Barbecue, ha detto in un’intervista alla stampa che se “il primo ministro non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio”. Il 6 marzo il quotidiano statunitense Miami Herald ha rivelato che mentre era in volo Henry avrebbe ricevuto un messaggio dal dipartimento di stato di Washington che lo invitava a dimettersi e ad accettare un governo di transizione che porti il paese verso nuove elezioni. Ad Haiti non ci sono elezioni dal 2016 e da quasi un anno non c’è più nessun rappresentante eletto. Secondo il giornale, “si tratta di una svolta che in pochi si aspettavano, visto che la Casa Bianca finora aveva sempre respinto le dimissioni di Henry”. Della situazione di Haiti abbiamo parlato anche in questa puntata del podcast il Mondo.           

 Nella foto: Port-au-Prince, 29 febbraio 2024. (Odelyn Joseph, Ap/LaPresse)

Da Sudamericana -newsletter sull’America Latina a cura di Camilla Desideri su internazionale.it - 8 marzo 2024  

 


 

 

 

 

 

 




 

 


 



12 febbraio 2024

La rivolta dei trattori. Di chi è la colpa?

(di Francesca Basso e Milena Gabanelli - corriere.it - 12 febbraio 2024 )

Le proteste cominciate in gennaio in Germania si sono allargate a macchia d’olio al resto d’Europa: FranciaBelgioOlandaSpagnaPortogallo. E poi sono arrivate quelle italiane: hanno puntato su Roma ma sono arrivate fino a Sanremo. Un malcontento diffuso anche in RomaniaPoloniaUngheriaBulgariaSlovacchia. Ci sono ragioni che accomunano le proteste degli agricoltori europei, ci sono ragioni nazionali, e altre difficili da attribuire a qualcuno.

Il Green Deal diluito

Vengono contestate le soluzioni ambientali individuate da Bruxelles per tagliare entro il 2030 le emissioni di CO2 del 55% rispetto al 1990 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050: tutti i settori vi devono contribuire. Il primo motivo di scontro è stato l’aggiornamento della direttiva sulle emissioni industriali, che ha l’obiettivo di prevenire e ridurre l’inquinamento provocato dai grandi impianti, compresi quelli zootecnici: «la stalla deve comportarsi come una fabbrica, con tutti gli adempimenti sulla sostenibilità». Il mondo agricolo si è messo di traverso e nell’accordo finale raggiunto il 28 novembre scorso gli allevamenti intensivi di bovini sono stati stralciati dal testo. Il secondo è la legge sul ripristino della natura, proposta dalla Commissione Ue il 22 giugno 2022, per riparare almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell’Ue che versano in cattive condizioni. Per il comparto agricolo chiedeva di portare dall’attuale 4% fino ad almeno il 10% la superficie di terreno agricolo da non coltivare entro il 2030 (ma era a discrezione degli Stati indicare la percentuale ). Lo scopo è favorire la riproduzione della fauna e degli insetti impollinatori (api, coleotteri, sirfidi, falene, farfalle e vespe). Senza impollinazione è a rischio la crescita delle piante e la sicurezza alimentare. Per gli agricoltori il provvedimento metteva invece a rischio la produttività dell’Ue. Questa parte è stata stralciata dal testo finale nel novembre scorso. Il Parlamento Ue ha invece rigettato il 22 novembre il regolamento che puntava a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030, a favore di metodi alternativi. Una misura necessaria a proteggere la fertilità dei terreni, la salute dei coltivatori e la salubrità dei prodotti, ma gli agricoltori l’hanno contestata in tutte le sedi, e il 6 febbraio la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ne ha annunciato il ritiro. Sempre il 6 febbraio la Commissione Ue ha anche annunciato i nuovi obiettivi climatici Ue al 2040, che prevedono un taglio del 90% delle emissioni rispetto al 1990, ma ha evitato di indicare quel 30% per l’agricoltura che invece era presenti in una bozza iniziale.


 

Mercosur e prodotti ucraini

L’accordo di libero scambio con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) è da sempre nel mirino del mondo agricolo europeo, in particolare francese, che teme l’impatto delle importazioni. Pochi giorni fa la Commissione ha ammesso che non ci sono le condizioni per chiudere il negoziato. Poi c’è la questione dei cereali ucraini diretti in Africa. Chiuso il porto di Odessa è stato aperto un corridoio di transito via terra. Il problema è che alcuni container si fermano sui mercati polacchi, ungheresi, francesi, italiani. Il grano ucraino già costa meno, in più l’abbondanza di prodotto fa calare i prezzi. Un danno per i produttori di cereali, ma un vantaggio per gli allevatori che comprano il mangime a un prezzo più basso (che tuttavia si sono uniti alle proteste). Il 31 gennaio scorso l’Ue, per proteggere le produzioni agricole comunitarie di cereali ha introdotto un meccanismo di salvaguardia rafforzata sulle importazioni dall’Ucraina di prodotti a dazio zero, ed è previsto un «freno di emergenza» anche per il pollame, uova e zucchero.

La burocrazia della Pac

La Politica agricola comune (Pac) esiste dal 1962 per aiutare i contadini, stabilizzare i prezzi e garantire la sicurezza alimentare. Nel corso degli anni ha subito molti cambiamenti, ma la svolta cruciale è del 2023: per l’erogazione dei fondi occorre una maggiore attenzione alla questione climatica, anche perché gli agricoltori, causa siccità e alluvioni, sono i primi a pagarne il prezzo. Oggi la Pac vale un terzo del bilancio dell’Ue: per il periodo 2021-2027 si tratta di 386,6 miliardi più 8 miliardi provenienti da Next Generation Eu per aiutare le zone rurali a realizzare la transizione verde e digitale. Di quei fondi 270 miliardi sono per il sostegno al reddito degli agricoltori. All’Italia andranno 37,1 miliardi, alla Francia 64,8, alla Germania 42,5, alla Spagna 45,5 e cosi via. Per ottenere questi fondi occorre rispettare le condizionalità sull’uso di fitofarmaci, terreni a riposo ecc. Il problema per i piccoli agricoltori è la burocrazia lunga e gravosa. Critica accolta: entro il 26 febbraio la presidente von der Leyen presenterà al Consiglio Agricoltura delle proposte per ridurre gli oneri amministrativi. Inoltre la Commissione ha proposto di congelare per un altro anno l’obbligo di mettere a riposo almeno il 4% delle superfici coltivate per poter ottenere gli aiuti Ue previsti dalla PAC.

Richieste nazionali

Oltre alle proteste contro le politiche Ue, dove gli agricoltori hanno portato a casa diversi risultati, ci sono quelle contro i governi nazionali. In Germania a innescare la miccia è stato lo stop al «diesel calmierato» per i trattori (su cui poi il governo ha fatto una parziale marcia indietro). In Francia non vogliono gli aumenti delle imposte sul gasolio agricolo e sanzioni alle imprese che non rispettano la «legge Egalim», che regola e protegge il guadagno degli agricoltori nei confronti della grande distribuzione. Il nuovo premier Gabriel Attal ha promesso dieci misure con effetto immediato, tra cui semplificazioni amministrative per aiutare le piccole imprese a ricevere prima gli indennizzi dalle calamità naturali, e «clausole specchio» negli accordi di libero scambio (i prodotti agricoli importati devono soddisfare gli stessi standard di produzione europei). In Olanda il malcontento è iniziato nel 2022 quando il governo Rutte decise un piano di abbattimento dei capi di allevamento del 30% per ridurre le emissioni. In Belgio i contadini valloni chiedono l’adeguamento all’inflazione e la compensazione economica per tutti i vincoli.

Le richieste in Italia

Gli agricoltori italiani, oltre alle questioni comuni a tutti i Paesi Ue, pressoché tutte superate, si sono diretti in massa su Roma. Per chiedere cosa? Prezzi più giusti all’origine. L’ortofrutta, per esempio, quando arriva sullo scaffale del supermercato ha avuto un ricarico del 300% rispetto alla miseria pagata al produttore. Non solo: quando troviamo un prodotto in offerta lo sconto viene fatto pagare sempre al produttore.

Lo hanno fatto i piccoli coltivatori di mele della Val di Non: si sono consorziati e il prezzo di vendita alla Gdo (grande distribuzione organizzata) lo decidono loro. Altro discorso sono le aste al ribasso: la Gdo decide il prezzo iniziale e chi fa il ribasso maggiore entra sullo scaffale. Una pratica sleale stoppata da una nuova direttiva europea, ma che andrebbe potenziata. Un altro tema caldo è la redistribuzione dei fondi Pac. Dei circa 37 miliardi che arrivano nel nostro Paese spalmati su 7 anni, una quota è destinata ai campi coltivati. Da decenni il regolamento europeo parla chiaro: i fondi devono essere assegnati equamente. Tutti i Paesi si sono adeguati tranne l’Italia, dove un ettaro di terreno seminato al Sud riceve meno fondi rispetto a quello del NordPer riequilibrare bisogna togliere agli agricoltori del Nord, che ovviamente si oppongono. L’inadempienza però ci espone alla procedura di infrazione. Infine il coro che da ogni parte si leva : «tasse troppo alte». Vediamo.

Irpef sul reddito agricolo

Le imprese agricole individuali e a conduzione familiare hanno sempre pagato l’Irpef sui redditi dominicali e agrari definiti dal catasto in base alla superficie e al tipo di coltura dichiarata. Si tratta di importi modesti proprio perché non calcolati sui redditi reali. Nel 2016 il governo Renzi, con la legge n. 232 decide l’esenzione totale dell’Irpef. Prorogata poi dai governi successivi fino al 31.12.2023. Nella categoria ci sono i produttori di vino e i vivai che non hanno redditi risicati all’osso. A partire da quest’anno il governo Meloni ha deciso di non prorogare, scatenando la rabbia degli agricoltori. Ma quanto pesa sulle loro tasche? Dalla relazione tecnica alla legge di bilancio 2022 sappiamo che un anno di esenzione Irpef impatta sulle casse dello Stato per 127,7 milioni di euro, più 9,4 di addizionali regionali e 3,6 comunali. Totale 140,7 milioni di euro. Considerando che dai dati Istat le imprese agricole individuali e a conduzione familiare sono 1.059.204, vuol dire che in media dovrebbero pagare di tasse ognuna, all’anno 132,9 euro. Dal loro punto di vista sono troppi. E infatti la premier ci ha ripensato. In tutti i Paesi Ue gli agricoltori pagano le tasse in base ai loro redditi reali.

Redditi in crescita

Se si esclude il 2020, quando c’è stata una battuta d’arresto a causa del Covid, a partire dal 2013 il reddito medio per agricoltore nella Ue è cresciuto. Nel 2021, secondo i dati della RICA (rete d’informazione contabile agricola), ammontava a 28.800 euro. Dentro c’è un 10% di aziende agricole con un reddito superiore a 61.500 euro e un 10% fatica a raggiungere il pareggio (con in media meno di 800 euro per lavoratore). Tra i Paesi Ue ci sono differenze significative: Danimarca, Germania nord-occidentale, Olanda e Francia settentrionale vantano i redditi per lavoratore più elevati mentre in Romania, Slovenia, Croazia e Polonia orientale sono più bassi. In Italia la media arriva a 36 mila, con le regioni del Nord a quota 40 mila.

Gli aiuti straordinari

Nel periodo 2014-2023 Bruxelles ha stanziato 500 milioni per aiutare i produttori di frutta e verdura fresca colpiti dal divieto russo sulle importazioni dall’Ue; 800 milioni per stabilizzare il mercato lattiero-caseario e sostenere il reddito complessivo degli agricoltori per far fronte alle perturbazioni del mercato; 450 milioni per sostenere il settore vitivinicolo di fronte agli impatti del Covid e alle sanzioni commerciali; 500 milioni per sostenere i produttori più colpiti dalle gravi conseguenze della guerra in Ucraina e 156 milioni per gli agricoltori di Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia, i paesi più colpiti dall’aumento delle importazioni di cereali e semi oleosi dall’Ucraina; 330 milioni per gli agricoltori di 22 Paesi che hanno visto aumentare i costi di produzione e subito l’impatto di eventi meteorologici estremi.

Il dialogo mancato

Le ragioni di un malessere così diffuso sono tante e complesse, ma è troppo facile dire che tutte le colpe sono da addossare alle politiche europee o ai singoli governi.

La politica, che ora sta strumentalizzando le proteste in corso, dovrebbe invece mettere in campo le competenze migliori per trovare soluzioni praticabili. Significa conoscere il settore e confrontarsi con esso. Lo ha riconosciuto anche la presidente von der Leyen: «Per andare avanti sono necessari più dialogo e un approccio diverso». Poi però tutti devono fare la loro parte e non dire solo dei «no».                

 ( dataroom@corriere.it )

 

1 febbraio 2024

Divorzio in Africa occidentale

Con una dichiarazione trasmessa in contemporanea sulle tv pubbliche nazionali, le giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger hanno annunciato l’uscita dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao, in inglese Ecowas), che riunisce quindici paesi, da Capo Verde alla Nigeria.

Dopo una serie di recenti colpi di stato, i tre paesi sono guidati da governi di transizione in mano a militari. Spesso si sono scontrati con l’organizzazione regionale, che ha usato la minaccia delle sanzioni per convincere le nuove autorità a cedere il potere ai civili, invitandole ad accelerare il ritorno all’ordine costituzionale. La Cédéao aveva già sospeso i tre paesi, insieme alla Guinea, imponendo sanzioni economiche e amministrative. Nel caso del Niger era arrivata a prospettare un intervento militare per riportare al potere il presidente deposto, Mohamed Bazoum, alzando la voce anche per scoraggiare eventuali tentativi di golpe in altri stati. 

Di fronte a questi tentativi di isolamento, i tre paesi hanno stretto i ranghi e nel settembre 2023 hanno formato una loro organizzazione, l’Alleanza degli stati del Sahel, con la promessa di aiutarsi a sconfiggere le rivolte armate (non ultima quella dei gruppi jihadisti) e di affrontare insieme eventuali aggressioni esterne.

 

Sul piano strategico e militare, l’uscita dei tre paesi complica la lotta contro i gruppi jihadisti, che nelle intenzioni del presidente di turno del blocco, il nigeriano Bola Tinubu, doveva vedere un ruolo più centrale della Cédéao dopo il ritiro di molti contingenti internazionali. Simbolicamente, è l’ennesima denuncia della presenza francese in Africa dopo la fine della colonizzazione, e un’apertura alla Russia, che si presenta come nuovo partner dei paesi africani. La settimana scorsa a Ouagadougou è arrivato per la prima volta un contingente russo degli Africa Corps, l’organizzazione che sta cercando di rilevare le attività della compagnia di sicurezza privata Wagner, dopo la morte del fondatore Evgenij Prigožin.   

Sui mezzi d’informazione della regione l’annuncio ha suscitato reazioni contrastanti e molti dubbi perché – oltre al significato simbolico e politico – l’uscita avrà conseguenze sulla vita delle persone creando “una crisi politica ed economica senza precedenti”, scrive Jeune Afrique. La Cédéao, nata nel 1975, è infatti considerata un modello d’integrazione economica. Tra gli stati che ne fanno parte c’è la libera circolazione di persone e merci, mentre gli scambi commerciali e di servizi ammontano complessivamente a quasi 150 miliardi di dollari all’anno. Nel corso degli ultimi decenni sono stati fatti progressi nell’armonizzazione delle politiche nazionali, delle regole e delle strategie di sviluppo; sono state realizzate importanti infrastrutture ed è stato creato un mercato unico dell’energia. È in cantiere anche una moneta unica, l’eco, per sostituire il franco cfa.

L’uscita dei tre paesi dalla Cédéao non sarà immediata: dalla notifica formale dell’uscita, dovrà passare un anno. “Sarà un lungo periodo di negoziati, che alcuni paragonano a quelli tra il Regno Unito e l’Unione europea ai tempi della Brexit”. 

da Africana-Internazionale - 1 febbraio 2024

I tre volti di Hamas tra identità e ideologia

di Marco Mayer  *

Leader politici impegnati all’estero, attività di beneficenza e Brigate Qassam, che in trent’anni hanno assunto un peso politico sempre più rilevante all’interno dell’organizzazione. L’analisi di Marco Mayer

La mia analisi delle dinamiche intra-palestinesi era errata, ma ho realizzato il mio errore solo il 7 ottobre 2023. Fino a quel momento, come la maggior parte dei politici e degli analisti, credevo ancora nella possibilità di un processo di riconciliazione tra le due principali fazioni palestinesi. Nel triennio 2007-2009, ho verificato sul campo l’escalation del feroce conflitto fratricida tra Hamas e Fatah. Nonostante la sua violenza estrema, consideravo tale rivalità prevalentemente di natura politica, credendo che potesse essere mitigata per raggiungere un accordo tra le due fazioni sulla soluzione a due Stati. Una prospettiva a cui il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti dell’Egitto sotto il presidente Hosni Mubarak, ha lavorato instancabilmente per anni, senza successo.

Durante il governo di unità nazionale dell’Autorità Nazionale Palestinese guidato da Hamas tra il 12 e il 14 giugno 2007, i miliziani delle Brigate Al Qassam hanno preso il totale controllo della Striscia di Gaza dopo aver ucciso o ferito gravemente circa 700 membri delle forze di sicurezza della ANP. Questo dominio è perdurato per i successivi 17 anni. Ancora oggi, non è chiaro perché Hamas, essendo al potere dal 17 marzo 2007 con il primo ministro Ismail Haniyeh, abbia deciso di attuare il colpo di stato a Gaza.

La mia ipotesi è la seguente: l’attuazione degli accordi di Oslo nel settore della sicurezza, in particolare l’addestramento delle forze di sicurezza palestinesi da parte dell’Occidente, potrebbe essere stata percepite come una minaccia esistenziale da parte di Hamas (e forse anche da Teheran) alla loro dominazione politico-religiosa sulla Striscia, una base logistica indispensabile per combattere Israele. La battaglia fratricida nel giugno 2007 è stata estremamente cruenta, con Hamas che ha utilizzato feroci tecniche di combattimento per sconfiggere i “fratelli” palestinesi fedeli ad Abu Mazen. Purtroppo, poco è stato scritto su questo importante capitolo storico, e sarebbe utile che i giornalisti intervistassero i poliziotti dell’ANP sopravvissuti, costretti a trascorrere le loro giornate su una sedia a rotelle dall’evento tragico. Ricordo che la crudeltà delle Brigate Qassam, specialmente di alcuni reparti speciali, ha colpito profondamente i medici palestinesi che hanno curato le loro ferite. Alcuni si sono chiesti dove e come i miliziani di Hamas abbiano imparato tali feroci tecniche di combattimento. Con il senno di poi, possiamo affermare che la crudeltà emersa negli scontri del 2007 è stata un segnale sottovalutato dalle analisi politiche e di intelligence. In generale, forse distratti dalle vicende dei foreign fighters e dello Stato islamico, è mancata un’analisi accurata e un monitoraggio costante sulle caratteristiche identitarie di Hamas, in particolare dei suoi combattenti.

Hamas presenta tre volti distinti. Il primo, decisamente fuorviante, è rappresentato dalle immagini dei leader politici a Doha, Damasco, o durante le loro missioni all’estero in luoghi come il Cremlino, l’Iran e la Turchia. Il secondo volto è quello della beneficenza, al-Mujamma‘ al-Islāmī, dalle origini agli sviluppi iniziali (1973-1984), un’organizzazione religiosa di tipo solidaristico che fornisce aiuti concreti alla popolazione, combatte la diffusa corruzione nei ranghi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e difende le ragioni di Gaza rispetto alla rivale Ramallah. Il terzo volto prende forma nel 1992 con la fondazione delle Brigate Qassam, il braccio religioso/armato che in trenta anni ha assunto un peso politico sempre più rilevante all’interno di Hamas. Come evidenziato dal loro sito web, le Brigate Qassam hanno una forte impronta messianica, ricca di richiami di matrice religiosa.

In Israele, i politici che si sono opposti all’ipotesi dei due stati hanno spesso equiparato le Brigate religiose Qassam di Hamas alle Brigate secolari di Al Aqsa fondate nel 2000 dai leader di Fatah. Questa equiparazione è un errore, poiché, anche in presenza di azioni terroristiche simili, le motivazioni ideologiche dei miliziani giocano un ruolo significativo, plasmando l’identità e influenzando i comportamenti dei combattenti. È difficile negare che, quando la fede nella vita eterna è coinvolta, i processi di de-radicalizzazione diventano molto più complessi. Mentre non posso fornire una percentuale esatta, è evidente che una grande parte dei miliziani delle Brigate Qassam desidera morire in combattimento, certi di raggiungere il Paradiso dopo aver inflitto il massimo danno ai nemici.

Non voglio stigmatizzare l’Islam, ma sottolineare il ruolo del fondamentalismo religioso e il suo potenziale incitamento alla violenza e alla guerra. Le comunità religiose dovrebbero prestare molta più attenzione agli effetti indesiderati della fede; in caso contrario, chi sostiene che i secoli passati dalla notte di San Bartolomeo (23/24 agosto 1572) siano passati invano potrebbe avere ragione.

Venerdì a Firenze, nell’aula magna dell’Università su iniziativa della rettrice Alessandra Petrucci, il Rabbino Gad Piperno, l’imam Izzeddin Ezil e padre Bernardo Gianni incontreranno gli studenti. Sono sicuro che ognuno di loro evidenzierà il lato dialogante della propria fede, ma la storia ci ha consegnato anche un lato oscuro che non può essere ignorato.

Marco Mayer è Adjunt Professor presso la Scuola Superiore Sant' Anna di Pisa dove insegna Cyberspace and International Politics. Nel corso della sua attività professionale ed accademica si è prevalentemte occupato di relazioni internazionali con particolare riferimento a Peacekeeping, Security, Intelligence, Human Rights e Multi-track Diplomacy. Dal 1999 al 2002 ha lavorato in Kosovo presso la missione delle Nazioni Unite. Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si concentra sugli sviluppi della politica internazionale nell' era digitale e nel gennaio 2014 ha presentato i suoi più recenti lavori al MIT. Dal luglio 2014 è, inoltre, membro del Roster of Experts del Consiglio di Sicurezza dell'Onu (Security Council Affairs Division-SCAD).

* da www.formiche.net - 1 febbraio 2024