19 settembre 2016

Riforme democratiche o revisione autoritaria ?


Parte prima: La primavera mancata dei referendum e le nebbie dell’autunno istituzionale


   di Massimo Marino




Si è’ clamorosamente sgonfiata “la primavera dei referendum” e ci infiliamo in un complicato autunno dove nella nebbia si rischia di non capirci più nulla. In realtà tutto era prevedibile, anzi era già successo. Poiché sbagliare è umano e perseverare non è diabolico ma decisamente sciocco è ora di mettere in fila gli avvenimenti, gli errori, e qualche proposta per uscirne. 

L’iniziativa referendaria (12 quesiti, cioè troppi), preceduta dall’anomalo avvio del referendum fallito per mancanza di quorum sulle trivelle promosso da varie Regioni (una formula senza raccolta firme che si è mostrata ingestibile) riguardava ben quattro diverse aree d’interesse:

1)            L’assetto costituzionale per la parte della rappresentanza dei cittadini. In particolare contro il nuovo Senato di secondo livello e le sue incerte attribuzioni nel referendum obbligato di fine anno, e una proposta con due quesiti contro l’Italicum, la cui incostituzionalità, essendo una copia peggiorata dell’incostituzionale  Porcellum dovrebbe in realtà essere certa. Un percorso di revisione autoritaria spacciato per riformatore, già testato da una deludente sostituzione delle Province con incerti Enti di area vasta e con elezioni di secondo grado senza più il voto degli elettori nel territorio di nove Province (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria). In queste si istituisce le Aree metropolitane, un incerto rottame istituzionale che prevede dei sindaci superman bivalenti, che vagherà per un po’ di anni nella confusione e nello spreco di risorse prima che tutti si rendano conto che era più logico e utile dimezzare a 50 le province e lasciare i Sindaci delle grandi città al loro lavoro. E magari semplificare invece anche l’assetto regionale dove, a parte le due autonome del Trentino e Val d’Aosta ci sono ben 5 Regioni (Abruzzo, Friuli, Umbria Basilicata, Molise) al di sotto del milione e mezzo di abitanti, dove difficilmente gli elettori superano i 500 mila, le quali hanno comunque partorito negli anni ben 20 provincie su 110. 

2)            L’organizzazione della scuola dove ben quattro diversi quesiti (almeno uno di troppo) rimettevano in discussione il DL 104 (più modestamente rinominato “la buona scuola” da Renzi).

3)            Il settore del lavoro dove tre diversi quesiti rimettevano in discussione in diversi aspetti le regole del lavoro, contro il Jobs Act (cioè la legge 183 del 2014, primo esempio di legge sul lavoro assemblata insieme da governo e confindustria “dimenticando” le cosiddette “altre parti sociali “). 

4)            L’attualissimo tema della crisi ambientale e climatica riemerso dal silenzio con l’incontro COP21 di Parigi a fine dicembre scorso. Due diversi quesiti riproponevano il tema. Il primo partendo dalle trivelle sul territorio nazionale ricordava l’urgenza di una graduale fuoriuscita dai fossili (la cosiddetta decarbonizzazione ). Il secondo sulla tutela ambientale e il recupero dei materiali in alternativa agli inceneritori che con lo Sblocca Italia il governo Renzi ha rilanciato alla fine del 2014. Ben 12 nuovi inceneritori, poi ridotti ad 8    previsti per smaltire in aria 2 milioni di ton. in più di rifiuti, singolare contributo italiano al tema del climate change.

5)            In aggiunta ai quesiti referendari si aggregavano due proposte (una petizione e una proposta di legge di iniziativa popolare) nel campo dell’acqua pubblica e dei beni comuni in particolare in risposta alla aggressione al referendum vinto nel giugno 2011 ad opera di alcune parti del decreto Madia sulla Pubblica Amministrazione.


Come si vede nell’insieme un poderoso elenco di azioni  importanti potenzialmente di autodifesa nei confronti di una azione di revisione legislativa nella quale il governo Renzi-Alfano-Confindustria con l’apporto decisivo  in vari momenti di Forza Italia, ha mescolato alcuni marginali contenuti riformatori positivi con un ben più consistente percorso di revisione autoritaria della Costituzione , delle leggi sul lavoro e sulla scuola, senza dimenticare le tutele ambientali da sempre apertamente ignorate dal governo Renzi.
L’iniziativa referendaria era immaginata ingenuamente da molti di noi come un concreto percorso unitario nella raccolta delle firme, anche per proporre un disegno organico ai sottoscrittori e in fin dei conti per avvicinare il confronto fra diverse aree culturali, forme organizzate, pezzi disgregati del paese privi di una adeguata voce o rappresentanza. Insomma una occasione storica che probabilmente non aveva precedenti negli ultimi decenni. Con il retroterra e la speranza data dal successo dei 4 referendum vinti nel 2011. Chiunque abbia avuto esperienza di attiva partecipazione a campagne referendarie conosce le difficoltà organizzative, i costi economici, l’importanza dei media nel voto referendario soprattutto su temi di non facile lettura. Non c’era nulla che non fosse prevedibile, unire le iniziative era ovvio oltre che razionale. Ma nulla di tutto ciò è invece avvenuto. E’ prevalsa la solita incapacità, una realpolitik da due soldi (cominciamo a raccogliere le nostre firme poi si vedrà) già fallita in altre occasioni. 
Va ricordato infatti che sugli stessi temi, con più o meno gli stessi protagonisti e incredibilmente con gli stessi errori siamo al terzo fallimento consecutivo in pochi anni. Fallimento perché sui tre quesiti istituzionali non si sono raccolte firme sufficienti favorendo così la propria autoemarginazione dallo scontro che comunque ci sarà. Altrettanto è fallita la raccolta sui due quesiti ambientali, chissà perché inseriti in quelli “sociali” ( fra l’altro ogni quesito che ottiene le firme comporta un contributo ai promotori di 500mila euro) e promossi da gruppi troppo ristretti e organizzativamente inadeguati ,con la pratica assenza di tutte le principali associazioni ambientaliste. Mentre su lavoro e forse la scuola con la prevalente presenza di parti del sindacato si è superato di poco il quorum di firme. Si vedrà se ci sarà l’avallo definitivo della Cassazione e quali saranno i tempi di un eventuale appuntamento referendario, di molto impoverito e depotenziato, con grandi difficoltà prevedibili nel raggiungimento del quorum.  
Il primo fallimento era già avvenuto nel luglio 2011 quando si arenò l’iniziativa referendaria di alcuni costituzionalisti che tentava l’abolizione del maggioritario versione Porcellum-Calderoli. Dal punto di vista delle conseguenze la proposta Passigli ( portavoce del comitato promotore) risultava decisamente interessante e meritevole di un largo sostegno. Aboliva fra l’altro il premio di maggioranza alla Camera ( tre anni dopo dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale ). Ne derivava un sistema di tipo proporzionale ma con un quorum del 4% che riduceva una eccessiva frammentazione. Al Senato si aboliva il premio utilizzando un semi proporzionale nei collegi ritagliando lo schema utilizzato nel Trentino AA. Il terzo quesito aboliva le liste bloccate.
L’avvio della raccolta firme del 2011 per opera di gruppi troppo ristretti, in coincidenza con il periodo delle ferie, si presentava del tutto avventuroso, nell’assoluta mancanza di una discussione preventiva in settori più larghi del paese.  Contro la raccolta firme, completamente ignorata e boicottata dai principali media, si scatenò una sotterranea e pesante aggressione da parte del PD. Veltroni, Bindi, Violante, Parisi, i nascenti renziani fra gli altri.  A loro si aggiunse anche Vendola e infine lo stesso Di Pietro (del cui partito Passigli era aderente), per ultimo Bonelli. Tutti gli orfani dell’ulivismo con cui si sopravvive per un po’ galleggiando con il 2%. Il PD  minacciò dietro le quinte un contro referendum. Così a metà raccolta firme, mancata anche l’adesione di Rifondazione per la miserabile contrarietà all’ipotesi di un limite (4%) al proporzionale puro, i Comitati in azione per la raccolta firme si fermarono quando Passigli, per motivi non tutti chiari, si ritirò da rappresentante dell’iniziativa. Eliminato il pericolo successivamente si riprovò con il mattarellum cioè un maggioritario giocato nei singoli collegi con una modesta quota proporzionale. In realtà è sempre un maggioritario non palese agli elettori che infatti sta riemergendo in questi giorni visto il rischio elevato di incostituzionalità dell’italicum su cui dovrebbe pronunciarsi la Corte Costituzionale all’inizio di ottobre ( ma si tende a rimandare) . Nacque proprio da questa occasione perduta la strada che ha portato alla nuova versione del porcellum peggiorato chiamata italicum.

Il secondo fallimento è avvenuto nel giugno 2015 quando l’iniziativa referendaria è stata riproposta da Possibile, il gruppetto di Civati e alcuni altri appena fuoriusciti dal PD renziano. Si trattava in gran parte degli stessi identici quesiti riproposti cinque mesi fa.  Il solito eccesso di protagonismo, l’incapacità di altri soggetti ad aggregarsi superando l’evidente settarismo di Civati, altri aspetti di trasformismo tipico dei vari gruppetti della cosiddetta sinistra radicale, hanno portato al fallimento della raccolta firme di Civati che è così praticamente uscito di scena.
Conseguente con la evidente difficoltà a sinistra ( Civati, Fassina, Vendola, Airaudo, Ferrero.., senza dimenticare gli ex arancioni diventati rosa come Pisapia e Doria) di abbozzare una nuova rifondazione di alcunché , tantomeno una vera riforma istituzionale innovativa, tutta la vicenda referendaria ha confermato miseramente la crisi degli alternativi delle varie sfumature. A parte i grillini, di cui vediamo dopo, l’unico che si è salvato è De Magistris, almeno riconfermato mantenendo la propria autonomia nel suo clamoroso successo napoletano. Per il resto una grande occasione sfumata, con la quale mi sembra si sia sostanzialmente chiusa per molti anni la storia della tradizionale sinistra italiana , dalla quale sarebbe utile trarre degli insegnamenti. 

E’ utile ricostruire prima le mosse dei grillini in questa vicenda. E’ noto che nel Movimento 5Stelle non esistono sedi nazionali, strutturate e riconosciute, di vero e proprio dibattito politico e culturale sugli assetti di fondo da dare ad un regime democratico basato sulla rappresentanza delegata (a cui loro aggiungono, più che sostituire, aspetti di democrazia diretta). Certo se ne discute in qualche modo fra i parlamentari per evidenti ragioni istituzionali. Ma sarebbe singolare pretendere da loro una univoca posizione su questioni istituzionali davvero complesse che tanti altri neppure tentano di affrontare seriamente. La gran parte degli aderenti al M5S sono fortemente intrisi di una cultura democratica, contraria alla violenza (non c’è stato mai da dieci anni, un solo episodio violento attribuibile a loro), sensibili alle questioni sociali ed alle priorità della tutela ambientale. A queste aggiungono una condivisibile ostilità, a volte un po’ ingenua e semplificata, alle logiche degenerative della politica, la cosiddetta propensione anticasta. Ad oggi è irrisolto nel movimento lo spinoso problema di come organizzare la democrazia e la strategia al proprio interno per il momento sostituite da discutibili sedi e strumenti decisionali (lo staff, i garanti, il direttorio, le sue versioni mini, il voto improvvisato in rete). Il caso romano mostra che Grillo è ancora di gran lunga quello che istintivamente riesce a mantenere alla fine la strada giusta.  Prima o poi dovranno scegliere come darsi un migliore assetto decisionale e allora si giocherà il loro (ma anche il nostro) futuro.
 
Ma è un fatto che nella gran parte delle battaglie istituzionali, sociali e ambientali ed in particolare in quelle di cui qui ragioniamo, i grillini si sono schierati a favore e le hanno sostenute, magari in forma limitata e frammentata. Sul referendum prossimo di dicembre sono di gran lunga la forza organizzata più rilevante e determinante per la vittoria del NO. Sui referendum di primavera si sono invece scarsamente coinvolti, impegnati in molti casi nelle imminenti elezioni locali. Sarebbe bastata una settimana di loro mobilitazione totale, considerata la disponibilità di numerosi eletti per le certificazioni, e tutti i 12 quesiti sarebbero andati in porto. Forse non hanno capito la dimensione dello scontro e anche la possibilità di diventarne meritoriamente protagonisti. 

Va aggiunto che sulle questioni istituzionali, a differenza degli altri, in realtà non erano neppure al punto zero. Nel 2012 il blog di Grillo promuoveva un sondaggio, un po’ improvvisato, per capire l’opinione dei propri sostenitori sul sistema elettorale preferito (proporzionale, maggioritario, con quorum o senza, con preferenze o no etc.) Ne usciva una sventagliata, come prevedibile in qualunque consesso improvvisato di elettori , di ben 35 diverse varianti elettorali dove prevaleva però una tendenziale vocazione proporzionale con varie possibili correzioni ma anche  una sostanziosa minoranza a vocazione maggioritaria, singolare in un raggruppamento in cui si parla di democrazia diretta. Più di due anni dopo ( cioè un secolo per la storia del M5S) un più serio percorso di pronunciamento sul sistema elettorale che avrebbero dovuto sostenere i 200 neoeletti parlamentari grillini, con l’ottimo sostegno di Aldo Giannuli come facilitatore, ha portato a ben otto  votazioni in rete in cui passo passo alcune decine di migliaia di aderenti hanno scelto , quasi miracolosamente, una  ottima proposta, abbastanza chiara, di sistema elettorale proporzionale che evita l’indifendibile proporzionale puro ( senza quorum), indicando la necessità di un quorum ( inteso al 4-5% almeno), una dimensione mediana dei collegi etc.. Una ottima proposta che, credo inconsapevolmente, nei suoi effetti ricorda il sistema vigente in Germania e in alcuni altri paesi del centro-nord europeo. Ritengo questo esperimento uno dei momenti più importanti e creativi della storia dei grillini, forse la loro migliore proposta, che ha definito ufficialmente la posizione del movimento. Tuttavia...

Tuttavia il complicarsi del dibattito parlamentare su un tema che a torto appassiona purtroppo pochissimi italiani, ha complicato, eccessivamente, anche il comportamento degli eletti grillini. Resta inspiegabile, nella babele di posizioni emerse nei partiti e nel PD fra tutti, perché ad un certo punto più di un anno fa i grillini abbiano sostenuto in aula una mozione, senza seguito per fortuna, (prima firma il renziano ex radicale Giachetti ) che riproponeva il ritorno al mattarellum. Successivamente si è fatta strada in modo non esplicito, l’illusoria, oltre che opportunista, opinione, alimentata da una parte non innocente dei media, che in fin dei conti un italicum con il premio al partito e il ballottaggio inventato da Renzi e suggeritori per stravincere a seguito dei risultati delle elezioni europee, avrebbe potuto invece favorire i 5stelle. E’ stata quindi smarrita una chiara posizione sul tema, tentati dall’illusoria speranza di prevalere, non prevedendo alleanze, nel secondo passaggio di ballottaggio.  Una scorciatoia al paradiso (grillino) che i partiti, PD e Forza Italia in particolare, legati da un patto di ferro per cui tutto si può fare per fermare il terzo incomodo, difficilmente permetteranno. E a qualunque costo.

Sui referendum falliti è calato un silenzio tombale. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché nella maggioranza dei tavoli si raccoglievano le firme per un solo gruppo di referendum e non per gli altri, a volte in aperta ostilità o competizione. Opponendosi alle proposte di coordinare la raccolta dei diversi gruppi promotori fino quasi alla scadenza, quando ormai l’obiettivo era compromesso. Fra le poche voci di protesta cito alcune righe del Comitato Acqua pubblica di Torino a fine giugno: “ .. Qualcuno ha creduto che la somma di sigle minoritarie fosse sufficiente per creare un’alleanza sociale; qualcuno ha pensato di poter calare la campagna dall’alto di importanti cattedre universitarie; qualcuno ha avuto eccessiva fiducia in legami di rappresentanza sindacali e di partito che ha ritenuto potessero sostituire la costruzione di un movimento unitario. Abbiamo tutti mostrato il fianco svelando le nostre debolezze. La lezione che ci avevano dato i referendum del 2011 (1,5 milioni di firme a quesito, 26 milioni di voti), e cioè l’importanza di costruire percorsi condivisi, l’abbiamo dimenticata nella fretta di partire e nell’ansia di difendere ciascuno il proprio orticello”. Non ho trovato né sentito molto altro di significativo. Alcuni dei responsabili storici di questa situazione mi sembra abbiano scelto un silenzioso pensionamento. Per parecchio tempo lo strumento referendario ha chiuso, almeno per noi. Ed è evidente che senza larghe aggregazioni, forme organizzative solide ed efficienti, maggiore trasparenza e minore protagonismo dei singoli, persone o gruppi non è pensabile riaprirlo. 

Solo a fine agosto Alfiero Grandi, uno degli esponenti nazionali per il NO ha espresso, seppure in modo molto sintetico qualche osservazione ragionevole: “ Il referendum si vince se soggetti molto diversi riescono a mobilitarsi per il NO. E’ ovvio che non sarebbero in grado di dare vita ad una coalizione alternativa, il compito è far vincere il NO... Se vincerà il No occorre approvare una nuova legge elettorale per la Camera e il Senato, rispettosa della parità di voto, tale da riconsegnare agli elettori la scelta dei loro rappresentanti e di affidare la formazione di un governo ai programmi, ad un accordo quando è necessario, perché la mediazione sociale e politica non è una bestemmia ma il modo per rafforzare la capacità autonoma del paese di stare nella scommessa globale. Esattamente il contrario dei premi di maggioranza, delle élites dominanti che impongono le loro soluzioni.
Forse involontariamente Grandi ha evidenziato il nodo di fondo che rende vulnerabili le forze, diverse e con diversi obiettivi che si pronunciano per il NO: “Se vincerà il No occorre approvare una nuova legge elettorale per la Camera e il Senato, etc..”  Perfetto! E quale sarebbe? 

L’unica timidissima proposta che ho letto di recente è quella di 4 giuristi ( Pasquino, Pertici ,Viroli, Zaccaria): “ Una riforma puntuale, condivisa e democratica” in qualche modo stesa in collaborazione con Civati e alcuni altri. Diciamo che perlomeno ci provano. Può sembrare incredibile ma non ci sono altre proposte pubbliche e decentemente organiche. 

Infatti se vince il SI le cose sono relativamente chiare: avremo un Senato con un ruolo confuso e ridimensionato, non eletto dai cittadini ma da accordi fra gruppi di eletti nelle regioni (molti aspetti saranno simili ai futuri Consigli metropolitani che eleggeranno a ottobre ). Nelle successive elezioni politiche, se i grillini non si suicideranno prima (sono gli unici che possono fermare se stessi), si sposterà il premio all’ultimo momento sulle coalizioni con l’accordo modulato (come una fisarmonica) fra Renzi e Berlusconi, o chi dopo di lui, con i reciproci partitini gregari o inventati. Si farà quanto ritenuto sufficiente a garantire il premio e ridimensionare il  M5Stelle. In forme diverse per il primo turno o per il ballottaggio se i grillini ci arrivano.
Varie competenze rilevanti delle Regioni saranno ridimensionate. Con il declino di Province e Aree metropolitane, con un Senato di secondo grado di nomina, in fin dei conti tutto si concentrerà sul Governo e sul controllo ferreo della Camera dei deputati dove, nella versione attuale dell’Italicum, un solo partito (o una lista unica-somma di più partiti) avrebbe la maggioranza di circa il 55% degli eletti indipendentemente dal proprio peso elettorale. Molti milioni di voti verranno di fatto annullati e girati con il premio all’antagonista. Questa doppia sciagura (Si al referendum e voto con l’Italicum) cambierebbe il regime democratico-costituzionale del paese verso un avventuroso sistema autoritario che non ha similitudini neanche nei paesi dell’est europeo dove almeno le tendenze autoritarie sono chiare e praticamente dichiarate.

Al momento quindi solo la vittoria del NO e lo smantellamento del maggioritario dell’Italicum (o fotocopie nascoste come un mattarellum peggiorato o il turno unico aggiunto) da parte della Corte Costituzionale possono fermare questo scenario. Le obiezioni critiche interne al PD sono insignificanti o marginali, alcune addirittura peggiorative.

L’unico possibile incidente di percorso, dalle conseguenze davvero difficili da prevedere, resta l’ipotesi che nelle elezioni regionali siciliane e del comune di Palermo dell’autunno e primavera  2017 ci sia una clamorosa vittoria del M5Stelle. Per impedirla nell’Assemblea regionale siciliana che può come Regione a statuto speciale, incredibilmente, anche modificare le regole elettorali dei propri Comuni, PD e UDC hanno posto il ballottaggio al 40% tentando addirittura  di abolirlo con un solo turno e premio, per le prossime elezioni di Palermo. Praticamente un tentato golpe di prova ( lì il partito della nazione con un PD ormai geneticamente modificato è realtà). 

Ma se invece avessimo un imprevisto doppio successo, se vincessero i NO e la Corte Costituzionale (ad ottobre o dopo il voto referendario) riconoscesse di fatto le critiche degli oppositori? Cadrebbe il nuovo Senato, cadrebbe la nuova legge elettorale ma “ i vincitori “non avrebbero alcuna proposta ne’ su le norme costituzionali né sulle regole elettorali o, diciamo meglio, ne avrebbero una decina, perché in nessuna sede,  in nessun tavolo di promotori minimamente significativo si è mai discusso che proposte di modifica costituzionale ed  elettorale con chiarezza sosteniamo.

E’ questo il vero, preoccupante retroterra della primavera fallita dei referendum.

(fine prima parte)

Nella seconda parte: E’ possibile riformare le regole della politica italiana ?

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